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Il permesso di ingresso
per “ricerca di lavoro”
Enrico Pugliese è professore emerito di So-
ciologia del lavoro presso la Facoltà di So-
ciologia della Sapienza-Università di Roma.
Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell’Isti-
tuto di ricerche sulla Popolazione e le Poli-
tiche Sociali del Consiglio Nazionale delle
Ricerche (Irpps-Cnr). Ha pubblicato, tra l’al-
tro,
Immigrazione e diritti violati
(Ediesse,
2013);
L’Italia tra migrazioni internazionali
e migrazioni interne
(Il Mulino, 2006) e
L’e-
sperienza migratoria. Immigrati e rifugiati
in Italia
(con M. Immacolata Maciotti, La-
terza, 2010).
Hai studiato per tanti anni l’immigra-
zione. Possiamo ripercorrere le princi-
pali tappe dei flussi migratori in Italia?
Io sono arrivato all’immigrazione dall’agri-
coltura e dalla emigrazione. Alla fine degli
anni Sessanta mi ero trasferito negli Stati
Uniti, come ricercatore, e avevo cominciato
a studiare i braccianti agricoli in California,
dove era in corso un grande sforzo organiz-
zativo. Ai braccianti agricoli tra l’altro ero
arrivato attraverso lo studio della pover-
tà; era l’epoca della “Great Society” e delle
politiche per l’eliminazione della povertà e
dell’ingiustizia razziale. Ma poi i braccian-
ti agricoli erano migranti e lavoravano in
condizioni che le nostre mondine non hanno
conosciuto. Le loro condizioni erano affini a
quelle dei nostri braccianti immigrati, cioè
violazione dei diritti sociali e non raramente
anche dei diritti umani.
Quindi dagli studi sull’agricoltura e l’e-
migrazione sei passato all’interesse per
l’immigrazione.
In quegli anni un amico e collega, Franco
Calvanese, che aveva studiato l’emigrazio-
ne, comincia a drizzare le antenne su que-
sto fenomeno nuovo della immigrazione. La
prima immigrazione è in parte agricola o
prettamente femminile nell’ambito dei lavo-
ri domestici (non c’erano ancora le badanti
che arrivano nel corso degli anni Novanta).
Le lavoratrici domestiche vanno nelle fami-
glie borghesi o anche piccolo borghesi dove
le donne sono occupate; il loro ruolo è per
così dire,di “sostituzione”, nel senso che sop-
perivano alle carenze del welfare, anche se
poi c’era pure lo status symbol di avere la
cameriera -come si diceva all’epoca- “di co-
lore”.
Emblematicamente se ne trovavano soprat-
tutto nel Mezzogiorno d’Italia, cioè molto di
più a Caserta che a Mantova. A Caserta per
motivi di arretratezza socio-culturale, ma
pure per carenze di welfare. Questo era un
ambito. Poi c’era qualche venditore ambu-
lante, la pesca in Sicilia e ovviamente l’a-
gricoltura che, nel corso degli anni Ottanta,
esplode in tutto il Mezzogiorno.
Si può dire che la prima immigrazione agri-
cola è immigrazione nel Mezzogiorno. È an-
che la prima immigrazione maschile (con
l’eccezione del Friuli e gli jugoslavi arrivati
per la ricostruzione e della Sicilia per la pe-
sca). Va da sé che parliamo di lavoro nero.
Era lavoro nero e lavoro nero è rimasto.
La mia tesi è che dall’agricoltura si va via.
Cioè in agricoltura si arriva, perché tu ar-
rivavi in qualche modo e quello trovavi, ma
poi si va via.
A pensarci oggi, sembra impossibile
che prima del ’90 non ci volesse il visto
per entrare in Italia.
La prima legge in materia, la 943 dell’86,
che comprende una sanatoria, è una legge
molto progressista; la legge Martelli, che
verrà dopo, nel 1990, non è così male, però
è una legge ingenua e pertanto cattiva. Il
principio è sempre: “Chi è dentro è dentro,
chi è fuori è fuori” e quindi viene istituito
il sistema dei visti che, di fatto, determina
un’ulteriore spinta alla irregolarità. Potrei
dilungarmi sull’uso del termine regolare,
irregolare, clandestino, ma andiamo avanti.
Alla vigilia della legge Martelli, nel 1989,
c’è l’episodio di Villa Literno, l’assassinio
di Jerry Masslo, un sudafricano impegnato
nella raccolta dei pomodori.
Martelli è ministro di giustizia e ha una li-
nea molto avanzata, pur con tutte le ingenu-
ità dell’epoca. Ad esempio si diceva che “gli
immigrati prendono i posti che gli italiani
lasciano”; una fesseria che non teneva conto
della radicale trasformazione dell’economia.
Ricompare in quegli anni il mercato delle
braccia: venuto meno negli anni Settanta,
torna negli anni Ottanta. È in quegli anni
che comincio ad approfondire. Ci colleghia-
mo tra demografi. E poi dopo, all’università,
comincio a dare le prime tesine di laurea,
sempre a partire innanzitutto dalla mia
competenza, che è il mercato del lavoro.
Chi arriva in Italia in quegli anni?
Arrivano i tunisini, che con ventimila lire si
comprano un biglietto per un posto in piedi
in traghetto, sbarcano a Trapani o a Mar-
sala, e trovano lavoro. Considera che alcuni
erano già impiegati nella pesca, dove ci sono
ciurme internazionali. Se vuoi, la cosa diver-
tente è che a Mazara del Vallo, città araba,
dove la casbah è rimasta sempre identica,
dopo mille anni sono tornati gli arabi!
Comunque possiamo dire che prima dell’89,
tu arrivi perché arrivi. Se sei polacca, dici
che vieni a fare il pellegrinaggio e trovi la-
voro come cameriera. Se sei jugoslavo, entri
in qualche modo e lavori nella ricostruzione
per il terremoto del Friuli. Poi cominciano
ad arrivare i primi senegalesi, in genere wo-
lof, quindi con solide tradizioni commerciali
e di grande mobilità territoriale. Per la pre-
cisione arrivano in Italia perché qui possono
entrare -i più sarebbero andati volentieri
in Francia; e poi qui fanno il loro mestiere,
quello di ambulanti.
La prima immigrazione massiccia è sene-
galese; è una migrazione gruppocentrica, in
cui i primi arrivati divengono poi i principali
portavoce. Le comunità più outspoken sono i
senegalesi e le filippine. Agli inizi degli anni
Novanta, se una signora voleva una came-
riera senza troppe pretese, prediligeva una
capoverdiana, perché le filippine già comin-
ciavano a mettere dei paletti sui loro diritti,
forti del fatto che facevano parte di una co-
munità organizzata.
L’altra nota curiosa è che in Sicilia, tutti i
maghrebini vengono chiamati tunisini; nel
continente, tutti i maghrebini vengono chia-
mati marocchini.
Ci sono anche tanti stereotipi.
Comincia subito la storia della prostituzio-
ne, che davvero grida vendetta. All’inizio
di un seminario sull’immigrazione interno
al corso di Sociologia del lavoro a Napoli,
chiedevo sempre: “Quali sono le professioni
che fanno gli immigrati? Cominciamo dalle
donne”. E la prima risposta qual era? “Pro-
stitute!”. In realtà per ogni prostituta che
c’era sulle strade della Campania, c’erano
almeno quattro, cinque, dieci cameriere.
Le cameriere venivano dal Corno d’Africa,
con gli italiani che tornavano dalla Somalia,
dall’Eritrea, dall’Etiopia. Poi c’erano le filip-
pine e le capoverdiane indirizzate qui grazie
a reti cattolico-ecclesiali.
I marocchini e i tunisini invece sono arrivati
perlopiù per fatti loro, imprenditivamente;
così i pachistani e i senegalesi che, girando
girando, sono arrivati qui e hanno fatto i vu’
cumprà.
Riguardo gli stereotipi, ricordo un film di
Michele Placido, un film molto buonista,
che per me non è una brutta parola (anche
se in questo caso ci voleva un po’ di sale in
zucca); comunque questo film, intitolato
“Pummarò”, voleva raccontare una storia
paradigmatica, edificante. Così abbiamo il
bellissimo giovane nero, il caporale cattivo
e la camorra. Lui poi si innamora di una
fanciulla, nera pure lei, che ovviamente che
mestiere fa? La prostituta!
Se vuoi, veniva anche da sorridere, perché
queste ragazze ghanesi spesso ricordavano
un po’ le ragazze di Harlem come costitu-
zione, basse, tracagnotte, col sedere grosso,
con la gonna corta e quindi tutti a pensare
che facessero le prostitute. In realtà erano
semplicemente ragazze nere che si vestiva-
no procacemente e che di lavoro facevano la
serva, oppure erano impegnate in qualche
stabilimento o, ancora, facevano le braccian-
ti come il marito e il fratello. I ghanesi erano
anche l’unico gruppo misto. Fino all’arrivo
i tunisini all’epoca
con ventimila lire si compravano
un posto in piedi in traghetto