Da Lampedusa al Brennero - page 9

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giati e i migranti si affollano alle frontiere.
Per fermarne il flusso, il governo post-apar-
theid ha adottato leggi draconiane contro
l’immigrazione e dal 2008 si sono moltipli-
cati episodi di grave xenofobia che hanno
colpito immigrati mozambicani, congolesi,
somali. In Nigeria stanno aumentando i
rifugiati interni, e non solo a causa delle
azioni terroristiche di Boko Haram, ma an-
che per via dei conflitti negli stati del Delta,
cassaforte del petrolio e quindi del potere.
Nel Camerun, ci sono rifugiati interni e al-
tri provenienti da Nigeria, Niger, Ciad. Nel
Niger, ci sono rifugiati antichi provenienti
dalle guerre del Ciad, che a sua volta ha ri-
fugiati delle guerre che hanno scosso il Dar-
fur e la Repubblica Centrafricana. E così
via in una catena che sembra infinita. Nel
Sudan ci sono i rifugiati del Sud Sudan, che
si aggiungono alle migliaia di rifugiati del
Darfur, che peraltro si trovano in tutti i pae-
si della regione. La Namibia, nel tempo, ha
concesso permessi di soggiorno ai rifugiati
angolani, prodotti dalla lunga guerra civile.
Frontiere che dividono culture comuni
Le frontiere che travalicano i rifugiati spes-
so dividono popolazioni che hanno la stessa
lingua, gli stessi interessi, che hanno con-
tinuato ad avere relazioni matrimoniali, di
scambio commerciale. Sono frontiere, fra
l’altro, che nessuno stato africano è mai riu-
scito a controllare. Del resto nemmeno gli
Stati Uniti, dotati di ben altri mezzi e tec-
nologie, riescono a controllare la frontiera
con il Messico e questo anche dopo la costru-
zione di una barriera elettrificata. Tutte le
frontiere sono permeabili, e in Africa sono
più che altrove delle finzioni. Quindi quan-
do ragioniamo su questi contesti, dovremmo
pensare in termini regionali e individuare
gli elementi che uniscono le popolazioni, in-
vece di quelli che le dividono.
In cinquant’anni di ricerca e insegnamen-
to in vari paesi africani, ma soprattutto di
rapporti con il mondo intellettuale africano,
come pure con il mondo contadino, ho visto
grandi progressi e grandi tragedie e ho capi-
to una serie di cose.
Facendo ricerca sul terreno, ho capito, ad
esempio, che bisogna lasciare che l’altro
parli, non imporgli la parola, non interro-
garlo, non sovrapporre le nostre problema-
tiche al suo modi di percepire la situazio-
ne che vive. A una signora bianca anziana
con occhiali e un libro di appunti in mano,
in mezzo a contadini africani che ne sanno
più di lei sui loro problemi, può capitare di
essere trattata con soggezione, come un es-
sere diverso, perlomeno superiore. Bisogna
saperlo e fare ogni sforzo per trattare gli
interlocutori come persone di cui si rispetta
la dignità, il che significa ascoltarli con di-
screzione e empatia. Il lavoro di ricerca deve
essere una condivisione in cui si rispetta la
reciproca dignità di essere umano. Maschio
femmina, bianco nero, di diversa etnia, lin-
gua o religione.
Non ho capito invece perché quando si ra-
giona di Africa, soprattutto qui nella diaspo-
ra, prevalgano ricostruzioni complottistiche
sui vari conflitti. Penso che sia assolutorio
e troppo semplificatorio affermare che sia
tutto e sempre colpa in primis dell’Impe-
rialismo. È sicuramente giusto e necessario
ammettere e analizzare le nostre respon-
sabilità, come cittadini di un determinato
stato, come membri di un gruppo economi-
co, culturale e/o religioso, di una famiglia,
comunità locale, nazionale, regionale e in-
ternazionale. Sicuramente la questione dei
rifugiati è sempre stata affrontata con pochi
mezzi e, ancora peggio, pochissime compe-
tenze. Ma sta soprattutto ai governi e alla
società politica e civile africana collaborare
per trovare le strade di negoziazione tese
alla conciliazione e a una soluzione dura-
tura dei conflitti. Altrettanto importante è
trovare mezzi e appoggi interni -e non solo
dipendenti dall’azione internazionale- in
grado di restituire ai rifugiati una vita più
umana e civile.
Il caso dei rifugiati del Rwanda in Kivu è
clamoroso, ma non un’eccezione. Vari an-
tropologi, a partire da Johan Pottier, han-
no osservato come all’interno dei campi si
fossero ricostruite delle strutture di potere
e di autorità, che commettevano abusi su
altri rifugiati non solo sulla base della di-
versa origine etnica, Hutu o Tutsi, bensì per
i diversi interessi che circolavano nel siste-
ma di gestione degli aiuti. Le associazioni
delegate dall’Onu a gestire i campi preferi-
vano spesso chiudere gli occhi, piuttosto che
affrontare queste situazioni. Riconoscere la
dignità dei rifugiati ruandesi, capire le ra-
Kalida Messaoudi Toumi, Yolande Mukagasana, Jacqueline Mukansonera, Premi Alexander Langer 1997 e 1998, Città di Castello
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