Da Lampedusa al Brennero - page 11

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si pensa che la terra non è solo una risorsa
economica, ma è uno spazio sociale, cultura-
le, politico.
Oggi si parla molto di
Land grabbing
, feno-
meno peraltro non nuovo, molto complesso
e diversificato. In epoca coloniale vennero
create piantagioni e i grandi parchi per la
“protezione” (e la caccia) dei grandi animali,
trasferendo con la forza le popolazioni che
in quei territori vivevano coltivando o pasco-
lando i propri armenti. Nairobi sorge in una
zona di pastorizia dei Masai. Nel 2004 ven-
ne dato un Premio Nobel a una formidabile
attivista ecologista kenyana, Wangari Maa-
thai, impegnata nella lotta contro la depor-
tazione della popolazione dalle terre fatte
proprie da potenti élite politiche, alleate a
imprenditori europei e asiatici.
Molti dei conflitti in paesi africani sono
conseguenze di rapporti di potere molto di-
seguali, in cui élite politiche e economiche
espropriano coltivatori e pastori sfruttando
la complessità e la sovrapposizione di diritti
spesso informali e per questo non difendibili
legalmente. Le norme che finiscono per pre-
valere in questi conflitti sono il risultato di
dinamiche di potere legate alle diverse fasi
politiche: colonizzazione, decolonizzazione,
indipendenze, crisi degli anni Settanta, ag-
giustamento strutturale degli anni Ottanta,
processi di democratizzazione formale, ecc.
La costa del Kenya, dove i turisti vanno a
fare i bagni in alberghi bellissimi, è stata
espropriata alla popolazione locale, preva-
lentemente musulmana, da joint ventures
tra potenti del governo e aziende e impre-
se europee, per costruirvi lussuosi alberghi.
Naturalmente questo ha creato frustrazione
e sovversione, e da tempo questa dissidenza,
non a caso, è diventata anche terreno di col-
tura di movimenti terroristici locali e inter-
nazionali. L’11 settembre negli Stati Uniti è
stato annunciato dal bombardamento di due
ambasciate americane, una a Nairobi e una
a Dar-es-Salaam. I terroristi non avrebbero
potuto agire senza appoggi interni
Da sudditi a cittadini
Per concludere. L’Africa è stato il continente
martire della nostra storia recente. È stato
l’ultimo a essere colonizzato e con metodi
abusivi e brutali. L’Africa indipendente è
stata poi la prima vittima, la più importan-
te (insieme all’America Latina), della Guer-
ra Fredda che ha frenato o reso impossibile
processi di possibile democratizzazione con-
donando e rafforzando ovunque regimi au-
toritari. Dagli anni Ottanta in poi, in un’A-
frica prostrata dalla crisi mondiale, sono
state negoziate e messe in atto politiche di
“aggiustamento strutturale, ovvero di risa-
namento e di austerità, sul modello liberista
del “meno stato più mercato”. Eravamo agli
inizi degli anni Ottanta, quando il Presiden-
te degli Stati Uniti Ronald Reagan ammonì
tutti gli stati che vivevano “al di sopra dei
loro mezzi”. Il messaggio era rivolto anche
a noi europei, soprattutto noi pieni di debiti,
ma allora ritenemmo che non ci riguardas-
se. Pensavamo si riferisse ai paesi poveri
di recente indipendenza accusati di essere
poco virtuosi ed eccessivamente statalisti.
Ad ogni modo, per l’Africa, l’aggiustamento
strutturale ha significato il crollo di quell’i-
nizio di costruzione e integrazione statuale,
che si fondava sulla promessa di libertà;
una trasformazione da sudditi a cittadini
che prometteva scuole e salute accessibile
a tutti, fine della povertà e opportunità di
lavoro attraverso il controllo e la gestione
delle risorse economiche. In quegli anni i
nuovi “cittadini” dei paesi africani sono stati
trasformati in “poveri”, masse oggetto delle
preoccupazioni di una miriade di organizza-
zioni internazionali, governative e non go-
vernative.
Ha ragione Yolande, qualsiasi critica si fac-
cia al governo ruandese, questo è uno dei
pochi governi che sta tentando di fare del-
le riforme gestibili e credibili dall’interno e
non solo dipendendo dall’aiuto internazio-
nale. Negli anni Novanta si è aperta l’era
dei processi di democratizzazione, spesso
più definiti nella forma che nella sostanza.
Dopo l’11 settembre tuttavia la priorità in-
ternazionale è diventata la sicurezza, il che
ha frenato ovunque processi di tipo demo-
cratico. La rinnovata corsa alle risorse di cui
l’Africa abbonda, l’aggressiva politica di pe-
netrazione economica della Cina, hanno poi
inaugurato incisive e inaspettate trasforma-
zioni economico-sociali causate da alti tassi
di crescita, in tutti i paesi africani, anche
i più poveri. Un processo caratterizzato da
una crescente disuguaglianza fra quelli che
hanno accesso e si sono molto arricchiti, la
massa che continua a sopravvivere preca-
riamente e quelli che non hanno nulla, i più
vulnerabili, i contadini senza terra, i giova-
ni senza lavoro, gli anziani senza protezio-
ne, le masse di orfani delle guerre e delle
malattie, in primis l’Aids.
L’unità, l’integrazione nazionale, la solida-
rietà, così forti al momento delle indipen-
denze, valori fondanti l’identità africana
(la dignità di essere cittadini e non più solo
sudditi coloniali o sudditi degli interessi
internazionali o degli interessi dei politici
e dei potenti nazionali o locali) è ora in di-
scussione e in pericolo, se non si troveranno
in Africa volontà e forza etica per risolvere
Paura
Nina Sadeghi
Qui,
una nuvola
grande quanto il mio cuore
sta piangendo.
Qui,
in questa spiaggia solitaria,
compagna degli eterni tramonti,
una nuvola
bagna il sentimento.
Sì, oggi
con questi occhi
posso piangere,
con questi occhi, lo sapete?
Io ho paura.
Profughi
Mohamed Malih
In sella ai nostri anni migliori
sfidiamo il mare
scrutando rotte
di mille altri destini alla deriva
l’approdo è un azzardo
alle porte di Lampedusa
altre storie verranno a galla
impigliate nelle reti dei pescatori
l’enfasi lasciamola ad altri esodi
noi siamo solo profughi
protagonisti della cronaca
e clandestini alla storia
Dal libro:
Sotto il cielo di Lampedusa. Annegati da respingimento.
Rayuela Edizioni, gennaio 2014
i conflitti in atto e impedire che altri ne sor-
gano.
Il grande esodo
Yolande, scrivendo, è riuscita a parlare di
una parte dei suoi traumi profondi, a intrec-
ciare un rapporto sia con il suo paese, sia
con il Belgio, sia infine con amici di tutto il
mondo e i parenti sopravvissuti. Noi oggi
non permettiamo ai rifugiati che arrivano
qui di poter elaborare il proprio trauma.
Questo è il grande problema. Ecco, penso
che usare la testimonianza in tutta la sua
purezza e verità possa aiutare a iniziare un
dialogo fra noi e loro.
I giovani che migrano, fuggono per le più
svariate ragioni: perché si sentono minac-
ciati, perché cercano migliori condizioni di
vita, perché vogliono avere il diritto di circo-
lare come tutti.
Uomini e sempre più donne trovano qui
delle barriere che non sono solo quelle legi-
slative e fisiche, ma sono barriere radicate
in pregiudizi discriminatori che sottendono
un razzismo mai risolto e che vanno contro
il diritto di essere considerati essere umani
con una propria dignità, individuale e col-
lettiva.
È questo il grande problema e su questo
dovremo lavorare. Cosa chiediamo alle isti-
tuzioni, di fronte al grande esodo, che si è
moltiplicato proprio a causa delle politiche
economico-sociali locali appoggiate da quel-
le internazionali? Chiediamo la consapevo-
lezza che si tratta di problemi non solo loro,
ma sempre più nostri. Una consapevolezza
che smantelli la continua saga di legislazio-
ni che vorrebbero contenere e respingere,
che non hanno mai funzionato nella storia.
Queste forme di contenimento servono solo
o soprattutto a radicare il pregiudizio che
coloro che fuggono, i rifugiati, i migranti
sono irrimediabilmente “diversi” e cioè infe-
riori, e dunque possono essere trattati come
nuovi schiavi. L’espressione “nuovi schiavi”
è tornata di moda, la troviamo sulla stam-
pa ogni giorno; contro tutto questo bisogna
combattere e lavorare.
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