Il jobs act del Presidente del Consiglio Renzi e del Ministro Poletti, già Presidente dell’Alleanza delle Cooperative Italiane, malgrado la annunciata riduzione dell’Irpef, con il conseguente aumento in busta paga di circa 80 euro al mese, prosegue la tendenza ad abbassare il costo del lavoro e ridurne la sicurezza per favorire (è la giustificazione corrente) nuove assunzioni. "Nuovi Lavori” ha pubblicato di recente autorevoli commenti (Bianchi, Morese, Treu, Mattina, Varesi, ecc.), alcuni più critici, altri più ovattati, sull’aumento della precarietà e la riduzione dei diritti.

"L’incidenza dei contratti a tempo determinato sul totale degli avviamenti nel periodo riferito passa dal 62,3% del II trimestre 2012 al 67,3% del IV trimestre. Tale incremento ha riguardato in larga parte assunzioni di breve o brevissima durata, comunque inferiori ai dodici mesi”, anche in sostituzione di altre forme di precarietà, ci informa Varesi. Con l’introduzione del rinnovo del tempo determinato fino a 8 volte e per un massimo di 36 mesi, senza doverne spiegare i motivi, ci si chiede chi mai possa voler assumere a tempo indeterminato se non per competenze eccezionali che si ha il timore di perdere. O perché, se non c’è più l’obbligo della formazione generale, e senza controlli su quella specifica, qualcuno debba rinunciare ad assumere i giovani come apprendisti, scaricando una parte degli oneri sullo Stato. La logica complessiva, ripeto, sembra essere che, senza scatti di anzianità, senza promozioni, con le retribuzioni ai minimi tabellari, le imprese assumeranno di più. Temo non sia vero.

Imprese ordinarie e imprese cooperative
Uno sguardo al Primo rapporto sulla cooperazione in Italia, dell’Alleanza delle Cooperative Italiane, della fine del 2012, fa sorgere qualche dubbio (primo link in fondo).
L’Alleanza, ci informa il rapporto, rappresenta oltre il 90% della cooperazione: 1 milione e 350 mila occupati; 140 miliardi di euro di fatturato. Durante il periodo dal 2007 al 2012 le cooperative sono aumentate dell’8%; le imprese sono diminuite del 2,3%; gli occupati sono diminuiti dell’1,2%. Che le cooperative paghino meno il lavoro non è in dubbio. Per restare alla sanità e all’assistenza sociale, settore in cui gli occupati nelle cooperative sono il 49,7% del totale, il costo orario per i dipendenti diretti va da 15,55 a 32,67 euro/ora; quello per i dipendenti delle cooperative da 7,18 a 13,22 euro/ora, a seconda dei livelli (secondo e terzo link in fondo). Anche senza tener conto, nel secondo caso, dell’instabilità, che rende più difficile salire di livello, tutti vedono che i costi sono meno della metà. Che convenga a chi paga il servizio usare una cooperativa anziché assumere direttamente, è sicuro. Anche prima del 2007 c’era la corsa (non senza conflitti, che a Torino ci sono stati) per subappaltare alle cooperative servizi prima realizzati direttamente dalle Asl. Quello che non quadra è che non c’è stato affatto un aumento dell’occupazione complessiva. In complesso, come risulta dai dati del Rapporto, e nel settore, come si è visto sede per sede, gli occupati scendono. Prendono di meno; sono di meno; hanno perduto completamente la possibilità di reggere un confronto con i dirigenti senza essere cacciati. Zitti e mosca. Sul peggioramento delle condizioni e la fine reale delle assunzioni degli svantaggiati con la centralizzazione dell’avviamento è molto severo il già citato Patrizio Bianchi. Ma Treu, nel suo intervento più ovattato, dà solo più peso allo stato di necessità e ai miglioramenti fiscali; non nega l’evidenza delle minori garanzie.

Dalla cooperazione solidale alla dipendenza con meno soldi e meno diritti
La trasformazione delle cooperative in aziende che pagano di meno, con meno garanzie, è stata generale, anche se diversa nei vari settori. Nell’industria, come si vede dal Rapporto, la flessione per la crisi riguarda tutti, anche le cooperative. Nell’edilizia l’organizzazione complessiva ha trasformato i dipendenti in lavoratori finto autonomi -anche per questo, credo, la dimensione media delle imprese è parecchio minore di quella delle cooperative. Nella sanità e assistenza la crescita delle cooperative non solo non ha avuto nessun aspetto solidaristico -si tratta di reti con migliaia di dipendenti- ma ha coinciso con una particolare polverizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori, qualche volta appena arrivati in Italia dall’Europa orientale, e con la spinta a ridurre i dipendenti diretti. Le resistenze di chi ha resistito -in Piemonte, qualche anno fa, l’assessore Valpreda- si sono fondate sulla irregolarità di alcuni cosiddetti appalti, che in realtà non riguardavano l’intero servizio, inclusa l’organizzazione e la direzione, ma il solo lavoro. Per superare i vincoli e i controlli sugli appalti, alcune cliniche si sono trasformate esse stesse in cooperative. I lavoratori sono stati semplicemente costretti ad accettare un rapporto che ha retribuzioni e diritti minori per non perdere il lavoro.
Se c’è una gran folla di disoccupati e precariamente occupati che preme; se molti lavorano al di sotto della sussistenza (se cioè, per vivere, integrano ciò che guadagnano coi contributi della famiglia o coi risparmi) non c’è modo di dire di no. Anzi, cresce la pressione per ridurre i diritti dei vecchi assunti, per accrescerne il carico di lavoro. Li si manda anche in pensione più tardi, tenendo fuori i giovani, come se il vantaggio per l’Inps di pagare meno anni non fosse annullato, in molti settori e casi, dalla minore efficienza e dal maggior costo dei vecchi.
Chi ha lavorato nel volontariato in questi anni, anche prima del 2008, ha visto nascere piccole cooperative autonome, vere. Il più delle volte le ha anche viste morire. Mentre la pressione delle grandi cooperative su quelli che lavoravano nell’assistenza, immigrati o no che fossero, è stata irresistibile.

Come se ne esce?
Forse non se ne esce. Certo non con l’ordinaria amministrazione, continuando a ridurre la spesa in ricerca, istruzione, legalità. L’ascensore che ha riportato gli europei, le ex-potenze imperiali, più o meno al livello degli Stati Uniti, non funziona più. Non c’è nessuna tendenza naturale alla crescita economica. Se si producono innovazioni utili si sta meglio e si cambia in meglio il mondo. Se qualcuno consuma più degli altri senza produrre beni e servizi innovativi è perché qualcun altro lavora per lui e gli paga una rendita. Ma non possiamo vivere tutti di rendita. Non possiamo sperare di ripetere il miracolo economico degli anni Sessanta e Settanta che è costato dolore e fatica, ha sconvolto le nostre società, ma ci ha reso benestanti. Ridurre in miseria, di nuovo, chi lavora, non fa crescere la ricchezza complessiva; caso mai solo quella dei ricchi. Possiamo, dobbiamo, tentare di battere la tendenza attuale a privatizzare tutto, inclusa la sanità e la scuola. Imitare gli Stati Uniti in questi campi difficilmente ci darebbe Harvard e Yale, ma di sicuro raddoppierebbe il costo delle cure, farebbe guadagnare medici e case farmaceutiche e crescere il Pil; e abbasserebbe di alcuni anni l’attesa di vita. Dei poveri, s’intende. Sarebbe la soluzione finale del problema delle pensioni.

Primo rapporto sulla cooperazione in Italia:
http://goo.gl/YYUYw1
Tabella costo del lavoro: http://goo.gl/xFLxhS
Tabella paga dipendenti cooperative sociali: http://goo.gl/Val4qm