Com’è iniziato il tuo impegno in Africa?
In generale, quando dici che vai a lavorare in Africa, quasi tutti i medici e infermieri ti rispondono: "Che bello, anch’io ho sempre desiderato andare a lavorare in Africa!”. Infatti, fin da quando mi sono iscritto all’università, anzi da ben prima, anch’io ho sempre pensato di andarci prima o poi. Direi che si tratta di una vocazione quasi "normale” per un sanitario. Già da bambino, in quarta elementare, una volta scrissi in un tema che da grande sarei andato a lavorare in Africa, tanto che un sacerdote il giorno dopo si presentò alla scuola a chiedermi se mi sarebbe piaciuto fare il missionario. Ma io risposi di no e lui ci rimase male. In realtà dell’Africa mi attiravano la primitività, la natura, la vita nelle capanne. Questo sogno stava per concretizzarsi poco dopo essermi sposato. Con mia moglie Carla eravamo sul punto di partire per il Togo con un’organizzazione non governativa di Cuneo, l’Associazione Internazionale di Volontari Laici, Lvia. Poi resistenze familiari ci hanno fatto desistere. Nel 1969, però, sempre l’Lvia mi chiese di andare a coprire la posizione di un medico in Kenya, in un ospedale rurale in Africa. Per me era l’occasione per fare una prima missione di conoscenza del lavoro e delle strutture sanitarie africane, non solo in Kenya, ma anche in Tanzania, grazie ai legami che avevo con alcuni gruppi missionari. Al rientro in Italia mi ero però convinto che non si trattava di posti in cui sarebbe stato possibile trasferirsi con tutta la famiglia per un lungo periodo. Avevamo già due figli piccoli e le condizioni di vita non mi sembravano affatto adatte a loro. Mia moglie Carla, invece, pensava che nel corso della missione mi fossi convinto del contrario. E fu lei a spingere affinché facessimo tutti insieme questa esperienza, perché sapeva che altrimenti avrei sempre rimpianto di non avere realizzato questo sogno antico, la frustrazione di un obiettivo mancato, un sogno infranto. Alla fine è stata molto più propositiva e determinata lei, riuscendo a superare dubbi e ostacoli: "Perché -ci dicevano- volete portare i vostri figli dove i bambini muoiono di malaria o diarrea?”. Nel frattempo, sempre nel 1969, avevo contribuito a fondare il Comitato Collaborazione medica (Ccm), a cui poco dopo arrivò la richiesta da una missione irlandese di collaborare all’ospedale missionario di Eldama Ravine, in Kenya. Qui le condizioni abitative erano decisamente migliori e favorevoli anche alla presenza di bambini: il clima temperato grazie all’altitudine e la non eccessiva lontananza da un centro urbano, a due ore circa di auto. Decidemmo di partire e così posso fregiarmi del titolo di primo medico volontario del Ccm. Siamo rimasti a Eldama Ravine per due anni, dal ’70 al ’72.
La tua famiglia come ha vissuto questa tua passione?
Direi bene. L’ospedale di Eldama Ravine era un posto dal clima ideale per i miei bambini che, all’arrivo, avevano tre e cinque anni. L’ambiente umano, una missione irlandese, era capace di grande calore e simpatia. I due anni di Eldama Ravine sono stati un’esperienza di vita che ha segnato con un marchio indelebile tutta la famiglia. Direi che dopo Eldama nessuno di noi cinque è stato più lo stesso. La mia formazione medico-professionale si è grandemente avvantaggiata del lavoro all’Eldama Ravine Mercy Hospital. Tutti i casi difficili mi si sono impressi per sempre nella memoria e li ricordo come allora. I volti dei pazienti, le immagini dei quadri anatomo-patologici e perfino gli odori, memorizzati nel centro olfattivo, sono prontissimi a riportare alla coscienza fatti e persone. Un bagaglio esperienziale fondamentale. Al ritorno dall’Africa, Carla, che era stata segretaria efficientissima della Direzione di una grande azienda, rinunciò per sempre alla sua carriera per diventare impiegata volontaria del Ccm. Invece i miei figli non hanno mai pensato di fare medicina. Penso di aver portato in casa la sensazione che il mio lavoro f ...[continua]
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