Silva Bon, storica contemporaneista, ha prodotto numerose monografie, saggi, articoli, interventi sulla storia del Novecento. È stata dal 2003 al 2011 presidente dell’Associazione di volontariato culturale di donne Luna e l’Altra. Ha pubblicato, tra l’altro, Donne attraverso. Soglie, spazi, confini, libertà. Storie e riflessioni di donne dopo Franco Basaglia, Centro "Leopoldo Gasparini”, Gorizia 2012. La sua storia è stata pubblicata nel libro Lo chopin partiva, ed. Una città, 2007. Il libro di cui si parla nell’intervista è Guarire si può, Edizioni Alpha Beta 2013.
Cosa intendiamo quando parliamo di "recovery” nella malattia mentale?
SilvaBon. Recovery è un termine anglosassone, difficilmente traducibile in lingua italiana, non esiste una parola analoga, per cui spesso lo si traduce con una perifrasi: con "recovery” si indica la ripresa dopo uno svenimento, il recupero dopo una crisi; è in generale un riaversi, uno stare meglio rispetto ad uno stato precedente. Recovery, ripresa, riaversi, star meglio e anche guarigione non sono più parole tabù in psichiatria. Se fino a qualche anno fa si parlava di cronicità assoluta, di una malattia senza vie d’uscita, in questi due ultimi decenni, nel mondo anglosassone, nei paesi scandinavi, ma anche in Francia, sono nati dei movimenti che promuovono la recovery e che coinvolgono medici, operatori e soprattutto utenti.
IzabelMarin. Quello della recovery è un concetto che è stato elaborato e usato, anche strategicamente, dal movimento degli utenti - mi riferisco in particolare agli Stati Uniti.
La recovery, come nozione, nasce già a partire dagli anni Settanta, quando compaiono i primi risultati degli studi longitudinali sulle persone con una diagnosi di schizofrenia, da cui risulta che una grande percentuale di persone guarivano completamente o comunque registravano un miglioramento significativo, nel senso che vivevano la loro vita in un modo soddisfacente ed erano integrate socialmente. Questo è stato importantissimo. Fino ad allora, si credeva, per esempio, che il disturbo mentale grave non potesse avere altro esito che non fosse la cronicità, l’inguaribilità. Questo è stato un primo passo, ma erano ancora gli studiosi, lo sguardo scientifico, ad andare a definire chi era guarito e chi no. La vera svolta è avvenuta quando le persone hanno incominciato a raccontare dall’interno le proprie esperienze. La persona con una sofferenza psichica ha guadagnato un inedito protagonismo. È a quel punto che il concetto di recovery si delinea meglio: la persona può pure continuare ad esperire dei sintomi o anche a stare male per dei periodi; il dato decisivo è che possa comunque portare avanti il suo progetto di vita.
Patricia Deegan, una leader del movimento degli ex-utenti, alla fine degli anni Ottanta racconta la sua esperienza spiegando perché si considera guarita e cosa le sia servito. Il suo articolo viene pubblicato in un contesto scientifico. Questo è un secondo passaggio importante. Fino ad allora gli studi scientifici erano una cosa, le esperienze personali un’altra. Finalmente, tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta compaiono le prime ricerche qualitative: gli studiosi stessi cambiano il focus, non vogliono più parlare di numeri, ma di esperienze.
Dicevate che essere "guariti” non significa necessariamente non avere più sintomi...
Izabel. Il punto cruciale è proprio questo. Le persone che affermano di essere guarite possono anche esperire dei momenti di criticità, però hanno ricostruito una propria vita e sentono di avere una prospettiva davanti, un futuro.
Silva. Per quello che mi riguarda, io non penso mai ad una guarigione assoluta, nel senso di qualcosa di definitivo. Recovery per me è progetto di vita, è qualcosa per cui bisogna lottare ogni giorno. La guarigione stessa è un confine mobile, qualcosa che si sposta in avanti. È l’essere lungo un percorso di cambiamento per acquisire sempre delle nuove capacità, per migliorarsi, per star meglio, per soffrire di meno, insomma. La recovery va ...[continua]
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