dai primi dati del censimento del 2014 emerge un Marocco diverso per tanti versi da quella che ne è l’immagine comune: certamente meno popoloso (neppure trentaquattro milioni di abitanti) e sempre più urbanizzato. Secondo l’economista Mohamed Chiguer si potrebbe qui parlare di "ruralizzazione” delle città per l’assenza di una transizione industriale. È di fatto eclatante il dato di una popolazione urbana al 60%, con la prospettiva che raggiunga in pochi decenni il 70%. Come si sperimenta visitando il Paese, la popolazione si concentra in alcune regioni, le più urbanizzate e non a caso specialmente quelle del corridoio urbano atlantico: la regione di Casablanca, con quasi sette milioni di abitanti (più del 20% del totale), seguita da Rabat-Salè e da Marrakech-Safi, regioni entrambe di quattro milioni e mezzo di abitanti. Le città crescono a una velocità sorprendente, con un’uniformità di stile ammirevole, pur nello squallore della cementificazione selvaggia.
Le abitudini di vita dunque cambiano e paiono inesorabilmente condurre a una situazione di non rinnovamento generazionale, con un tasso di fecondità di appena 2,19 bambini per donna.
Con ogni evidenza, un Paese conosciuto come giovanissimo s’avvia verso l’aumento crescente della popolazione anziana, che si stima raggiungerà tra meno di dieci anni i cinque milioni.
E per giunta il Marocco non è Paese di immigrazione, nonostante la campagna di regolarizzazione dei clandestini avviata dal governo nel 2014 avesse spinto l’opinione pubblica a pensarlo. Sono poche decine di migliaia gli stranieri che vi risiedono.
La mentalità, come sempre, resta quella più resistente al cambiamento. Accade così che il film di uno dei più riconosciuti registi marocchini, Nabil Ayouch, venga censurato nel suo Paese perché mostra, col linguaggio provocatorio e visionario dell’arte, la realtà: in particolare quella della prostituzione, argomento difficile da trattare pur nell’evidenza della rilevanza nazionale. Città come Marrakech e Casablanca sono centri di prostituzione conosciuti anche a livello internazionale e il film "Zin li fik” (Much loved) non nasce dalla fantasia dell’autore, quanto da un lungo lavoro di ricerca. Ayouch ha intervistato duecento prostitute, si è ampiamente documentato e ha voluto rivelare questo mondo di cui tutti sanno, ma difficilmente parlano in pubblico. Lo aveva già fatto, con lo struggente "Ali Zaoua, principe della strada”, quindici anni fa, mostrando con franchezza, realismo e poesia i bambini di strada di Casablanca. Tra gli attori c’erano loro: alcuni, va detto, dopo i bagliori del palcoscenico avevano fatto repentino ritorno alla vita di prima... Dopo uno scandaloso passaggio nella televisione pubblica, una volta entrato nelle case di tante famiglie marocchine, l’argomento superò la barriera di perbenismo che impediva che se ne parlasse e diventò di dominio pubblico. Oggi anche il Marocco vive tensioni non sue, l’estremizzazione di certe letture dell’Islam ha portato a minacce assurde verso il regista e l’attrice protagonista.
Abdellah Taïa era riuscito a girare il film tratto dal suo libro "L’esercito della salvezza” in Marocco, nonostante il tema fosse l’omosessualità del protagonista, perché il Paese è ogni giorno più aperto; ma ci furono anche allora contestazioni e aggressioni e l’omosessualità resta tuttora un crimine punibile con anni di carcere. Un bacio saffico di fronte alla Tour de Hassan a Rabat è costato alle attiviste Femen l’espulsione e a giovani loro collegati la denuncia e probabilmente la galera.
Il Paese resta in bilico tra cambiamento e tradizione, tra una visione del mondo aperta e la paura di rompere con le tradizioni religiose. Ed è normale, forse, che sia così...
Meno normale mi pare invece quanto accade a Venezia. Lì, in occasione della Cinquantaseiesima Biennale d’arte, lo svizzero Büchel ha allestito una vera moschea nella Chiesa di Santa Maria della Misericordia, non più utilizzata per il culto da almeno quarant’anni. È il padiglione islandese a essersi prestato a un ruolo che l’arte può praticare egregiamente: la provocazione su temi di rilevanza sociale.
Il fatto che in Italia un musulmano non sia libero di pregare in una moschea, in un luogo di culto pubblico (che non siano le quasi clandestine sale di preghiera dei centri culturali islamici aperte in capannoni industriali o garage e comunque mai ufficialmente luoghi di culto), è qualcosa di ...[continua]
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