Celebriamo il 25 aprile dedicando la copertina a una delle tantissime famiglie contadine dell’Appennino tosco-emiliano che, rischiando le loro vite e la casa, formarono, con la loro ospitalità, un corridoio umanitario fin dal settembre del ’43 per favorire la fuga e il ritorno in Inghilterra di migliaia di soldati e ufficiali, già prigionieri. Fra loro anche cinque alti ufficiali, due dei quali parteciperanno alla Resistenza. Solo nelle montagne del forlivese furono trecento le famiglie coinvolte. Perché lo fecero? Certo, glielo chiesero e li coordinarono i militanti della rete dell’Uli, fra cui i fratelli Spazzoli, repubblicani, i parroci e i monaci di Camaldoli, ma nessuno li obbligò. A muoverli a tanto forse fu, semplicemente, il dovere di fare il giusto. È stata un’epopea contadina, completamente dimenticata dalla storia della Resistenza (solo ancorata, come sosteneva la compianta storica Anna Bravo, all’immagine del partigiano di trenta-quarant’anni armato). Dobbiamo all’impegno di un compagno socialista che non c’è più, Ennio Bonali, la ricostruzione di questa pagina gloriosa della Resistenza, frutto di una lunga ricerca coronata alla fine dal ritrovamento, in una scatola abbandonata nello sgabuzzino delle scope dell’Istituto della Resistenza di Pesaro, di un rotolo di microfilm con migliaia di schede compilate dagli inglesi in previsione di un risarcimento che puntualmente arrivò a guerra finita. Onore a quei contadini e ad Arturo e Antonio Spazzoli, il primo catturato insieme ai membri della Banda Corbari e con loro ucciso e appeso nella piazza di Forlì, e il secondo, Tonino, ridotto in fin di vita per le torture, fucilato non prima di essere trascinato in piazza, sotto il lampione, a vedere il fratello minore. A loro, medaglia d’argento e medaglia d’oro della Resistenza, dedichiamo la “visita” in penultima. Qui a fianco riproduciamo, dall’Almanacco socialista del 1931, una pagina scritta a mano da Angelica Balabanoff, che allora viveva in Germania, su cui scorre un lungo elenco di antifascisti assassinati dalle squadracce fasciste e si conclude con la scritta “e di innumerevoli altre vittime senza nome”. Nelle pagine centrali, sempre dall’Almanacco del 1931, riprendiamo le “effemeridi” dei primi quattro mesi dell’anno, dove, accanto alla data del giorno compaiono nomi per lo più sconosciuti di antifascisti uccisi, negli anni passati, in posti anche sperduti, mischiati ai nomi dei grandi dirigenti e pensatori del movimento operaio internazionale, così come di grandi artisti e di importanti avvenimenti della storia degli ultimi secoli.
Infine, riguardo alle celebrazioni del 25 aprile: ovviamente c’eravamo, con la bandiera della Fiap, e certamente condividiamo le preoccupazioni di tutti, ma non il desiderio, che traspare a sinistra, che quella parte della destra resti fascista. Dobbiamo sperare e favorire il contrario. In fondo, lo sappiamo bene, cambiare si può e a volte è in bene. A parte questo la cosa più deprimente è constatare che una larga parte della sinistra, che inneggia alla Resistenza di allora contro fascisti e invasori, non manifesta, e non prova, alcuna solidarietà con chi, un intero popolo, oggi e in Europa, resiste eroicamente all’invasione di una potenza fascista. Lasceremo alla destra anche il patriottismo internazionalista?
Ricordiamo un’amica scomparsa precocemente: Irfanka Pasagic, psichiatra di Srebrenica, profuga a Tuzla, che ha dedicato la sua vita alle donne e ai bambini vittime della pulizia etnica. Poi parliamo di Cina, con Orville Schell che ci racconta di quanto sia “assolutista” la svolta di Xi e quanto aggressiva verso l’esterno. Le aziende occidentali dovranno venir via per tempo se non vogliono trovarsi a dover chiudere all’improvviso, quando fra Cina e Stati Uniti scoppierà la guerra fredda, o peggio. L’idea che i commerci e gli scambi societari e produttivi potessero spingere a qualche apertura in tema di diritti umani era solo un desiderio campato in aria e forse neanche tanto pio. Comunque è successo il contrario e bisogna prenderne atto. Di lavoro e digitalizzazione ci parlano Luciano Pero e Luigi Campagna. Poi, per gentile concessione di “Dissent”, pubblichiamo un’intervista a Michael Walzer sul perché i socialisti dovrebbero andar fieri di definirsi liberali, e su quanto sarebbe importante che l’aggettivo “liberale” fosse associato anche alla parola “nazionalismo”. La storia è quella di Denise Ghirelli, parrucchiera. Infine Giovanni Tassani ci racconta di un’altra tradizione, quella bianca e democristiana, molto plurale e travagliata, ma comunque centrale e decisiva per la tenuta democratica del paese. Poi pubblichiamo un reportage dal Congo, di Angelo Loy. Alfonso Berardinelli ci parla de L’uomo a una dimensione di Marcuse, Massimo Tirelli di caporalato e lavoro in agricoltura, Matteo Lo Presti della resa, nel ’45, del generale tedesco a un operaio genovese, Belona Greenwood della carta d’identità inglese che non c’è, ma che vogliono introdurre e, per Neodemos, Giuliano Cazzola che scrive di pensioni, mercato del lavoro e lavoratrici.
Editoriale del n. 291
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Patrizia Betti aveva partecipato alla fondazione della nostra rivista e per molti anni ne era stata una delle “militanti” quotidiane. Bravissima nella correzione di bozze, dovendo quindi leggersi tutte le interviste era diventata anche una con...
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