La copertina è dedicata a chi lascia la propria casa, il proprio paese, o perché costretto o per scelta, in vista di una vita migliore per la propria famiglia che resta. Nel numero si parla del Sudan, dove una faida fra due generali e fra due eserciti sta sconvolgendo un paese, che negli ultimi anni aveva conosciuto un buon periodo di rinnovamento.
Come “fare politica” in un contesto dove una parte importante della popolazione ha “tutto dietro e niente davanti” e dopo che per decenni si era pensato che il miracolo del Trentennio glorioso potesse essere lo standard? È stato il processo di “dipendentizzazione” dei piccoli contadini e piccoli imprenditori a provocare il crollo della natalità? Il problema, enorme e già molto studiato negli Stati Uniti, della ghettizzazione dei giovani maschi ignoranti. Le nuove stratificazioni e la diglossia che si sposta da dialetto-italiano a italiano-inglese. Quale modello per riconoscere le differenze senza polarizzare la società? Un’Europa che non potrà che essere confederale e che casomai eviti di presentarsi al mondo e in particolare all’Africa con le parole scritte nel progetto di Costituzione europea del 2005 che recitava: “Noi siamo la grande Europa che ha dato la libertà a tutto il mondo”. A insegnarci a farsi domande e a dare anche qualche risposta è Andrea Graziosi.
Anche le domande che suscita l’intervista a Kathleen Stock sono tante e varrà la pena continuare a discuterne a lungo: la distinzione concettuale tra sesso e genere, i “pronomi preferiti” e la rivoluzione della lingua, il conflitto, reale, tra i diritti dei trans e quelli delle donne; le preoccupazioni per il “contagio sociale” tra i minori, che diffonde fra i genitori l’incubo del suicidio; le terapie ormonali, la chirurgia; i casi, drammatici, di de-transizione e il problema di atleti nati uomini che competono con donne; casi paradossali di donne lesbiche che non vogliono avere a che fare con un corpo maschile, accusate di transfobia da “corteggiatori” maschi che “si sentono donne”... Kathleen Stock è chiaramente di parte, ma, anche per questo, molto utile a tenere aperto un dibattito che qualcuno vorrebbe chiudere infamando e minacciando. Kathleen Stock ha dovuto lasciare l’insegnamento dopo una campagna sistematica per farla tacere. Se uno osa dire che, fermo restando la libertà di “transitare” e di fare quel che si vuole, i generi restano due, perché, se non per altro, un maschio non potrà mai partorire, rischia di essere additato al pubblico ludibrio in quanto transfobico e di vedere pubblicato il suo indirizzo di casa. Su questo non si può che essere chiari: sono metodi fascisti di cui, ed è questo il caso, si sono sempre serviti anche i rivoluzionari di estrema sinistra.
In questo numero parliamo anche di neuroscienza e le domande sono: il principio costruttivo di un cervello umano è simile a quello di un moscerino? La diversità sta solo nella quantità di neuroni necessari a svolgere funzioni molto diverse? E allora che cos’è la “coscienza”, il “sentire”? E quando si sviluppa? E qual è la distinzione fra sensazione e percezione? E che cos’è la “copia efferente” e perché è così importante? A rispondere è Giorgio Vallortigara.
Poi Ilaria Parlanti ci parla di una malattia rarissima e della scrittura che aiuta; Maria Giorgini, segretaria della Cgil di Forlì, ci racconta i problemi che un’alluvione provoca nell’immediato; Alfonso Beradinelli scrive del grande critico Erich Auerbach e Massimo Teodori di un libro che demolisce il mito dell’alleanza fra Usa e mafia nel luglio del ’43; Vicky Franzinetti di un’esponente laburista che pensa che solo i neri possano considerarsi vittime di razzismo, poi Michele Battini ricorda un grande storico, Paul Ginsborg e Matteo Lo Presti un grande giornalista, Giampaolo Pansa; Velia Bartoli, di Neodemos, affronta il problema dell’ospedalizzazione degli anziani e infine Belona Greenwood, come al solito, ci racconta di cose che succedono in Inghilterra in questa estate torrida.
Nelle ultime ricordiamo Srebrenica con il report dell’Humanitarian Law Center di Belgrado, centro fondato da Natasa Kandic.
Editoriale del n. 293
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