È la seconda metà di ottobre del 2002. Si raccolgono dei testi su Israele e Palestina, per farne un libro. Avrebbe potuto succedere, con gli stessi testi, più o meno, nella seconda metà di ottobre del 2001 -l’11 settembre era già successo, e il resto anche: i kamikaze palestinesi maschi e femmine, le occupazioni dei paesi palestinesi da parte dell’esercito israeliano, gli omicidi mirati, i linciaggi dei collaborazionisti, gli assedii di Ramallah, gli autobus e le discoteche fatte a pezzi, le case demolite e i meli e i mandorli estirpati... Forse potrà succedere, più o meno con gli stessi testi, nella seconda metà di ottobre del 2003. Basterà aggiornare la contabilità dei morti. Siamo, a contare dal 28 settembre 2000, a 2570: palestinesi 1903, israeliani 616, altri 51. I palestinesi “collaborazionisti” ammazzati da altri palestinesi non entrano nel conto, e i ragazzini li prendono a calci nelle strade. Sono poco più di una sessantina. Nella prima Intifada erano molti di più.
Oppure, le cose potrebbero cambiare da un momento all’altro. Il tempo di stampare e mandare in libreria questi testi, e tutto può essere cambiato. Tutto è pronto per l’attacco militare all’Iraq, tutto è pronto in Iraq per la ritorsione su Israele, tutto è pronto in Israele, maschere antigas, vaccini antivaiolo e missili, eccetera eccetera. Un mondo pronto a tutto.
Intanto, la cronaca quotidiana è fatta per respingere. La strage di oggi è uguale a quelle dell’altroieri e di dopodomani. Le immagini dell’ultima ora si confondono fastidiosamente con quelle di repertorio.

Da un po’ di tempo, leggo le cronache dal Vicino Oriente quasi solo per cercarvi gli incidenti, gli atti mancati, i dettagli singolari, specialmente dal lato palestinese. Da Israele ci arriva un dibattito vivacissimo e senza censure, benché vi si insinuino intimazioni all’autocensura e rassegnazioni all’impotenza. I primi piani delle cronache palestinesi mostrano facce così unanimi, gesti così univoci, uniformi così uniformi, che bisogna cercare ai bordi qualche segno di obiezione, di diserzione, o almeno di esitazione. Si possono cercare, e trovare, nelle stesse mosse degli attentatori e dei “kamikaze”. Se un attentatore si fa notare troppo, o inciampa maldestramente sulla via del suo bersaglio, o confeziona male il suo ordigno, si può sperare che qualcosa dentro di lui resista a una risolutezza che vuol apparire d’acciaio. Ritaglio questi episodi eccentrici e accidentali, contrattempi, coincidenze, imprevisti; mi consolo con la loro frequenza.  
Come la rincorsa dell’assassino suicida Rafiq Hamad, che cercò di salire sull’autobus mentre la portiera si chiudeva, scivolò, e cadde a terra. Successe il 10 ottobre 2002, giovedì.

Un uomo di 35 anni, Rafiq Hamad, palestinese padre di quattro figli, scese dalla città di Kalkilya alla superstrada israeliana n. 4, che va a Tel Aviv. Alla fermata di Geha Road cercò di salire sull’autobus 87, ma sbattè nella portiera che si chiudeva, e cadde a terra svenuto, con la testa sanguinante.
L’autista dell’autobus, Baruch Neuman, 50 anni, lo vide nello specchietto retrovisore e n’ebbe compassione. Fermò l’autobus, scese, e con un altro passeggero, un infermiere, gli si fece vicino, e lo soccorse. Gli aprì la camicia per farlo respirare meglio, e vide il corpetto, fili elettrici e cinque chili di esplosivo imbottito di chiodi e biglie. Lo tenne fermo e gridò alla gente di scappare. Poi, mentre l’altro, rinvenuto, si divincolava furiosamente, scappò anche lui. Rafiq Hamad si alzò, fece qualche passo, e si fece esplodere gridando qualcosa in arabo. Saada Aharon, una donna ebrea di 70 anni morì, altri sedici restarono feriti.
L’attentato fu rivendicato a Gaza da Ezzedin al-Qassam, le Brigate di Qassam, braccio armato di Hamas.

Raccontato così, l’episodio ne ricalca un altro.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Un Samaritano lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
Un sacerdote vide e passò dall’altra parte. Anche un levita vide e passò oltre. Il terzo era un Samaritano, straniero ed eretico, in odio ai giudei. “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”.
Un dottore della legge si era alzato per metterlo alla prova... Aveva chiesto a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù disse:“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico...”.

Se il disgraziato Rafiq Hamad si fosse regalato la ritirata concessa da quell’inciampo nella portiera dell’autobus, se avesse graziato le sue vittime e se stesso -secondo quella benignità un po’ superstiziosa per cui si faceva grazia della vita all’impiccato cui si fosse spezzata la corda al collo- avrebbe avuto il tempo di chiedersi chi fosse il suo prossimo. I committenti di Ezzedin al-Qassam, o l’autista Baruch Neuman, o chissà chi altri. Forse la signora Saada Aharon.

L’inesauribilità di quella parabola del buon samaritano, fede positiva a parte, sta nella domanda sul prossimo. Il prossimo è quello che mi sta vicino, cui sto vicino: la ragazza davanti a me nella fila per entrare nella discoteca, sulla cui soglia mi farò esplodere. Il prossimo è quello che, benché di una gente ostile e malvista, si è fermato a soccorrermi. Per riconoscere il mio prossimo, devo forse accettare di disconoscere i capi della mia tribù e della mia Brigata.

Lo stesso giorno dell’attentato all’autobus n. 87, i nostri giornali riportavano il contenuto di una lettera aperta inviata al quotidiano Al Hayat dal signor Abu Saber.
Palestinese, padre di un “kamikaze” che si era fatto esplodere in Israele, Abu Saber aveva perduto poi la casa, distrutta dalla ritorsione israeliana, e temeva ora per il suo secondogenito diciassettenne: “Hanno iniziato a circuirlo, avvinghiati a lui come serpenti. Vogliono spingerlo a vendicare il fratello”. Abu Saber pronunciava una denuncia terribile contro i capi di Hamas e della Jihad. “Perché non ho ancora visto un figlio o una figlia loro indossare una cintura esplosiva e compiere quello che i loro padri chiamano martirio e io chiamo morte? ... Quello che ferisce di più il mio animo è vedere sheikh e leader che nascondono i figli. Quando l’Intifada è esplosa Mahmoud Al Zahar ha mandato suo figlio Khaled in America, Mohammed Abu Shanab ha mandato suo figlio Hassan in Gran Bretagna, la moglie di Abdel Aziz Rantissi ha impedito al suo di farsi saltare e l’ha mandato in Iraq a finire gli studi”. Abu Saber esprimeva la sua ripugnanza per le migliaia di dollari offerte alle famiglie dei “martiri”: “Quel denaro aumenta la sofferenza, è come se si fosse ricompensati per aver offerto la vita dei nostri ragazzi”.
Immagino che si sia sentito solo, Abu Saber. Spero per lui che abbia avuto accanto il suo prossimo. Chi non lo fosse, l’aveva capito bene.

Negli ultimi due anni c’è solo violenza che rotola giù, e abdicazione alla ragione e alla speranza. Gli argomenti della contesa sono ormai gomma da masticare durante la sparatoria. Qualcuno ha continuato a discuterli, ma come si sgrana un rosario nella cantina, sotto il bombardamento. Sono tre, gli argomenti principali: il ritiro degli insediamenti; il ritorno dei profughi; la questione delle mappe, da Camp David a Taba. Poi c’è uno sfondo di tutti gli argomenti vecchi e nuovi: la guerra mossa dall’Internazionale islamista contro l’imperialismo sionista e il suo lacchè americano.

Prendiamo le mappe. Questione cruciale. Del resto ancora oggi Israele non ha confini definiti. La rottura di Camp David (e dei suoi supplementi, Taba ecc.) è diventata la pietra di paragone delle tesi opposte. La tesi filoisraeliana sostiene che solo una premeditata e provocatoria volontà di guerra poteva indurre Arafat a rifiutare la concessione di un 98 o un 92 per cento dei Territori in discussione, e la stessa spartizione di Gerusalemme. La tesi filopalestinese sostiene che il 98 o il 92 o il 90 per cento erano in realtà un bluff o una falsificazione, e si impegna a documentare l’esiguità dei territori coinvolti e la loro arlecchinesca discontinuità. Si svolgono puntigliose battaglie geometriche sulle carte.
La definizione esatta dei confini è l’impegno più serio e fatale per la convivenza civile. Ma è anche, da sempre, dalla pelle di bue tagliata a striscioline, il banco di prova di tutte le imposture e le furbizie. Durante il martirio della Bosnia, i due presunti nemici giurati, il croato Tudjman e il serbo Milosevic, si incontrarono in una festa inglese, forse alzarono il gomito, fatto sta che disegnarono su un tovagliolino di carta la spartizione della Bosnia, e poi la dimenticarono su un tavolino, quella mappa confessa. Al negoziato finale di Dayton, Milosevic era messo a dura prova dalla diplomazia americana: le nottate finivano all’alba con l’accettazione di mappe disegnate dal whisky, e sconfessate dopo il caffè della tarda mattina. Del resto, basta guardare che reticolato delirante di sporgenze e rientranze è la mappa attuale della Bosnia-Erzegovina: una tortuosa e umida cicatrice di filo di ferro, pronta a slabbrarsi se mancasse il presidio di una polizia internazionale.
Quando ero un ragazzo Cina e Urss stavano per farsi una vera guerra, che aveva a pretesto una divergenza di frontiera sul fiume Ussuri. Aspiranti filocinesi, studiavamo le mappe spedite dall’agenzia Guozi Shudian, per sincerarci di ragioni e torti. Due grandi potenze già sorelle, cui prudevano le mani per la voglia di massacrarsi: e noi studiavamo sul pavimento cartine con un fiume fino allora ignoto, come se potessero spiegare la cosa. Un padre della patria argentino, il Perito Moreno, che era un grande scienziato, fece da perito in una bellicosa disputa di frontiera col Cile, ed ebbe la prontezza d’ingegno, dopo che si era concordato il confine attraverso il displuvio di un corso d’acqua andino, di farne dirottare il corso dai suoi operai la notte prima della firma. Confini da fissare e corsi d’acqua da deragliare continuano a fomentare astuzie e violenze dappertutto, e anche in Israele e Palestina. Dopo essersi applicati come bravi scolari alla topografia di Camp David e di Taba, e alla psicologia di Barak e di Arafat, c’è solo una cosa da fare: buttare via le mappe e le diagnosi dei periti, e ammettere che le percentuali di territorio e l’esattezza concordata delle linee di confine sono sensate solo quando paura e odio delle due parti si siano volti in buona volontà e ragionevolezza; e la separazione reciproca si inserisca dentro un più vasto orizzonte comune.
L’indipendenza statale e i confini dei territori sono espedienti indispensabili e disperati, come di fronte ai due col cric in mano da separare sull’autostrada. Poi o si allarga la maglia, o si muore. Due Stati, è una condizione inevitabile, ma non sarà né ragionevole né possibile finché non se ne veda un legame più largo -il sognato Benelux mediorientale di cui parlerà qui Wlodek Goldkorn- una confederazione di fatto, un mercato comune delle persone e delle cose, un vincolo speciale con altri paesi della regione, un rapporto speciale con l’Europa. Prima, i confini sono solo fili spinati e muri e cicatrici, apartheid di fatto, tristi espedienti per mettere una distanza fra i nemici, come le bande degli oltranzisti nelle curve degli stadi. (È vero però anche il reciproco: il necessario disegno paziente ed esatto delle mappe. Cedendo all’illusione di Oslo -tutti, più o meno, lo fecero, se non i più fanatici e lucidi e premiati terroristi e odiatori- si sottovalutarono sia le mappe che la buona volontà).
Oggi la bella (e mitizzata, anche) lezione del Sudafrica agisce a ritroso nel Vicino Oriente: come se si dovesse costruire un meticoloso apartheid, grazie al quale, in capo a un certo numero di anni, rendere possibile una riconciliazione...

Troverete qui un saggio firmato assieme da Sami Adwan e Dan Bar-On, sul lavoro congiunto di insegnanti palestinesi e israeliani sui testi scolastici. Illuminante riflessione. La sua premessa è la distanza di sicurezza. “Ci è stato subito chiaro che è troppo presto per pensare che israeliani e palestinesi possano puntare a un unico testo. Però è arrivato il tempo di cominciare a riconoscere anche l’altra narrazione”. I due gruppi hanno scelto un espediente suggestivo per accogliere le due narrazioni, e impedire che si accapigliassero. “Tra le due narrazioni abbiamo progettato di lasciare uno spazio bianco in cui gli studenti potranno inserire le loro riflessioni”. Bellissima intuizione, che introduce nella tipografia l’idea della terra di nessuno, e che dalla tipografia dovrebbe riuscire a ritornare alla vera terra: quella Terrasanta in cui tutto è troppo fitto, troppo gremito, il passato, il presente, e bisogna rifare un margine bianco, scostare, sgomberare un po’, intromettersi nel corpo a corpo.

Che cos’è la buona volontà? Niente che si possa definire o prescrivere. La si può cogliere soprattutto in certi gesti. Ne troverete qui un esempio in Ephrain Kleiman, che parla di Arafat e Rabin.
“Rabin ha cominciato con un tremendo sospetto verso Arafat, e lo stesso Arafat probabilmente. E l’intera idea di Oslo era basata sulla costruzione di un senso di reciproca fiducia... C’è qualcosa di profondamente simbolico nel linguaggio corporeo di Rabin; in quell’occasione, alla Casa Bianca, Rabin non voleva stringere la mano ad Arafat, e non era un gesto compiuto per la tv israeliana. Voglio dire, si trattava dell’uomo, del suo corpo. E qualche mese dopo, ci fu un incontro tra loro due e la telecamera era dietro, per cui Rabin non l’aveva  vista, e lo riprese mentre stava per mettere la mano sulla spalla di Arafat: era in corso la costruzione di una fiducia tra loro”.
Eccola, la buona volontà, discreta e cauta. La cattiva volontà è più facile da descrivere: mi è tornato in mente quel teatrale minuetto sulla soglia fra Barak e Arafat, con Clinton a supervedere, con dovizia di mani sulle spalle e inviti alla precedenza. I due erano di spalle, ma avevano visto bene le telecamere. Non è né buona né cattiva volontà, ma mimesi superflua, la quantità di baci che certi statisti e certi pacifisti europei scambiano con Arafat. Cattiva volontà è, specialmente, quel sovrappiù di mortificazione che si infligge al nemico, come lo sfregio incancellabile delle vendette primordiali, il taglio sulla faccia, i garretti dei cavalli segati. Gli ulivi sradicati, nella terra degli ulivi.

Conta la geopolitica, ma contano le persone, nel bene e nel male. Il confronto fra Sharon e Arafat ne è un’illustrazione un po’ ripugnante -niente grandezza di sfide e duelli antichi, solo vanità e meschinità di uomini maschi, vecchi e amanti delle armi. Contava Rabin. Come dice qui Goldkorn: “Credo che l’uccisione di Rabin sia stata la prova migliore del fatto che spesso nella storia gli assassinii funzionano”.
A volte penso che la buona volontà, che è per definizione paziente, lenta, tenace, mite, possa e debba anche lei trovare il suo giorno di gala, la sua cristallizzazione appassionata e repentina. Che un gesto -non la supponenza chirurgica, ma l’abbraccio di due che si sono battuti a sangue e cadono insieme, esausti- bruci le tappe. Che non sia solo l’odio a vincere nel giro di un’ora, di un assassinio, di un’esplosione.

Dice qui Dan Bar-On:
“Barak non ha avuto la capacità (la volontà?) di dire ai coloni che molti di loro avrebbero dovuto evacuare. Ugualmente, Arafat non ha avuto il coraggio di dire ai rifugiati che per la maggior parte di loro il sogno di tornare alle proprie case in Israele non si sarebbe realizzato”.

Sulla strada degli insormontabili fatti compiuti, israeliani e palestinesi hanno fatto rotolare due macigni opposti come il Ritorno dei Profughi e gli Insediamenti dei Coloni. Diversissimi all’origine, essi sono via via diventati dei feticci che tengono in ostaggio non tanto la parte avversa, quanto i propri stessi accecati o rassegnati adepti. La demagogia retorica domina il “Diritto al Ritorno” dalla parte palestinese. Dalla parte israeliana, la difesa degli insediamenti è disperantemente assurda, oltre che illegale. Ogni consultazione popolare conferma la convinzione israeliana che un accordo potrà intervenire solo con lo smantellamento degli insediamenti e il ritiro dentro i confini del 1967. Ma a inficiare questa disponibilità sta l’ininterrotta moltiplicazione degli insediamenti, e la forza di condizionamento che i coloni si prendono quando la guerra si fa più micidiale, e la loro resistenza rivendica e usurpa l’eredità del sionismo dei pionieri. Le ragioni di Israele inciampano ogni volta nella questione delle colonie, né è facile condividere l’idea che il ritiro possa solo essere oggetto del negoziato. Autorità e osservatori israeliani sostengono che un ritiro unilaterale, com’è avvenuto per il sud del Libano, ecciterebbe piuttosto che calmare l’aggressività terroristica. Ma è almeno altrettanto probabile che, all’opposto, possa dare forza alle posizioni palestinesi più moderate e responsabili, e sottragga l’argomento più forte ed esasperante all’irredentismo violento. E comunque, se davvero si riconosce l’inevitabilità e prima ancora la giustezza del ritiro, bisogna ammettere che non ha bisogno di essere negoziato: e che proprio la supremazia militare di Israele dovrebbe consentirgli una unilateralità lungimirante, piuttosto che la catena frustrante delle ritorsioni. Di più: moltiplicare gli insediamenti è un peccato speciale, in una terra che soccombe all’esosità millenaria della memoria, dei morti che sequestrano i vivi, delle “questioni irrisolte che riguardano il passato” (Dan Bar-On). Moltiplicare nel presente la questione irrisolta: ecco una pazzia imperdonabile.
Dall’altra parte, sta il “Ritorno dei profughi” palestinesi. È strano che così a lungo si sia trascurata la portata retorica dello slogan, che alla fine è diventato il più pesante ostacolo alla trattativa, più della stessa questione di Gerusalemme. Da parte israeliana, la risposta necessaria ed equilibrata è ormai chiara: sì al riconoscimento morale di quel diritto, a un’accoglienza simbolica, ai risarcimenti economici, no alla pretesa di un’attuazione materiale, letterale. Questa, che può apparire a prima vista un’ipocrisia, è in realtà la soluzione -il compromesso di buona volontà- imposta quando le ragioni sono spartite, e il tempo le ha sedimentate e indurite. (Arbitrarietà dei paragoni a parte, è sorprendente come a certi nostri rivendicatori letterali “di sinistra” del Diritto al Ritorno non venga in mente la questione dei profughi italiani dall’Istria). Da parte israeliana, il misconoscimento simbolico del “diritto al ritorno” rischia di essere un errore peggiore di una colpa: perché umilia i palestinesi nella memoria della loro propria Naqba, la catastrofe. Le colpe certe dei notabili palestinesi prima e dopo il 1948, poi degli Stati arabi e della leadership palestinese impegnati a far durare per generazioni campi e villaggi di profughi, per conservarne il titolo vittimistico e risentito, non bastano a esimere Israele da un riconoscimento franco.

D’altra parte, è sul punto del “ritorno dei profughi” che la questione dell’ “unicità” della Shoah si fa imprevedibilmente sentire.  
La inesausta questione dell’ “unicità” e dell’incomparabilità della Shoah è di quelle che non si lasciano definire verbalmente per intero, e che tuttavia non dovrebbero diventare un tabù religioso. Essa serve di volta in volta a risarcire una disperazione o a tentare una consolazione, ad accostare l’indicibile, a respingere la distrazione o la negazione o a sconfessare i baratti fra infamie contrapposte. Ma può essere messa da parte ogni volta che occorra misurarsi di nuovo senza riserve, senza sottovalutazioni né scale anestetiche di punteggi, con la persecuzione genocida. Può esserci un culto chiuso dell’unicità, e un suo sentimento aperto e generoso. Il secondo non è, del resto, obbligatorio. È solo migliore. Non si può chiedere a nessuno di essere migliore.
Se me la sentissi di riprendere il filo della questione -non me la sento- direi che l’ “unicità” è una questione eminentemente europea (e di quella fatale periferia semieuropea che fu ed è la Turchia, col genocidio degli armeni). Non tanto perché la comparazione fra Shoah e genocidi e stermini negli altri continenti è poco illuminante, al di là delle terribilità dei numeri di vittime. Ma perché la Shoah fu insieme il rinnegamento e l’inveramento dell’Europa. Il suo ebbro trionfo e la sua sgomenta catastrofe. Per questo l’Europa non ebrea -i non ebrei dell’Europa- ha contratto un debito con Israele che non può a nessun costo estinguere. Questo incancellabile paradosso distingue gli europei dagli arabi di Palestina, per i quali l’unicità della Shoah (a prescindere dalle devozioni naziste originarie e rinnovate, dai negazionismi e dall’adesione appassionata a capolavori delle fogne europee come i Protocolli dei Savi Anziani di Sion) non segna un debito diretto, né Israele può farla valere notarilmente come un proprio diretto credito. E però l’unico vero deposito pratico dell’ “unicità” è l’esistenza dello Stato di Israele come Stato degli ebrei. Altri Stati possono definirsi nelle stesse Costituzioni attraverso la comunità nazionale o, peggio, religiosa, dominante nel loro territorio, ma lo fanno solo cedendo a una distorsione nazionalistica e intollerante. Nel caso di Israele (avrebbe potuto essere così per l’Armenia) nel “diritto del sangue che prevale sul diritto del suolo e della scelta individuale” -così, ma criticamente, Barbara Spinelli- il sangue vuol dire la stirpe, o il sangue versato? Un diritto, per così dire, del sangue versato? Non il debito col sangue versato per liberarsi da un oppressore e guadagnarsi una patria, com’è in ogni epopea risorgimentale e nazionale, compresa l’italiana: ma il sangue innocente versato a un disegno di annientamento perseguito fin quasi al successo finale. La controprova negativa sta nella possibilità almeno teorica di ogni Stato di mutare la propria composizione etnica o religiosa -più o meno traumaticamente- cui Israele fa eccezione. Una maggioranza di popolazione non ebraica segnerebbe la scomparsa dello Stato di Israele. Questa drammatica singolarità trasforma questioni sociali e politiche -dall’evoluzione demografica, natalità e migrazioni, alla natura della democrazia istituzionale- in condizioni di vita e di morte. La democrazia israeliana, cioè l’esistenza di libera stampa, di libertà di associazione politica e di opinione, di culto religioso, di libere elezioni, di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è vincolata alla garanzia di una maggioranza di cittadini ebrei.
Dunque è una democrazia condizionata, per così dire. Una modifica della legge condiziona ora la presentazione alle elezioni al riconoscimento di Israele come “Stato democratico degli ebrei”: interpretazione assai più dubbia di quel vincolo di fatto. Jeff Halper qui lo chiama “nazionalismo tribale” e “razzismo”: spero che abbia torto. Più esattamente, che la sua cruda denuncia riguardi un rischio grave, e non una condizione statutaria. L’aspirazione a diventare un paese “normale”, senza clausole assicurative sulla composizione demografica o religiosa, è stretta nel letto di Procuste della sopravvivenza dello Stato. La parte più generosa di Israele aspira a uno Stato laico, composto delle due nazioni, rispettoso dei diritti dei suoi cittadini: ma deve arrestarsi, o va a sbattere, contro l’effetto temuto della crescita demografica della minoranza araba, fino all’eventualità della sua trasformazione in maggioranza. È esattamente la barriera contro la quale si infrangono le posizioni israeliane più aperte e autocritiche a proposito del “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi. Il trapasso dal riconoscimento simbolico del diritto al ritorno alla sua applicazione pratica integrale segnerebbe la cancellazione di fatto dello Stato di Israele.
Se questa è per la parte più laica e democratica di Israele l’angosciosa contraddizione che non consente di superare l’antinomia costitutiva dello Stato degli ebrei, dall’altra parte la rivendicazione integrale e senza riserve del ritorno da parte arabo-palestinese -o dei sostenitori della sua causa- implica, consapevolmente o no (no?) l’indifferenza alla sopravvivenza di Israele come Stato degli ebrei, cioè di Israele. Aporia logica che, esattamente come la disputa sulle mappe, non ha soluzione né nel diritto costituzionale né nella geometria, ma solo nel contesto più vasto capace di allentare il corpo a corpo, e, in sostanza, nella prevalenza della buona volontà.
In misura meno meccanica ma non meno urgente, la questione si pone anche rispetto all’opposta dinamica demografica fra ebrei israeliani e arabi israeliani. È lo stesso problema che segna allarme e allarmismo sull’immigrazione nei nostri longevi paesi, con la drastica differenza che in Israele la minoranza araba si trova in una continuità nazionale e religiosa, e soprattutto fisica, con la popolazione arabo-palestinese. Fin dall’esordio della “seconda Intifada” una cinica superficialità del governo israeliano ha rischiato di spezzare lo statuto speciale che i cittadini arabi israeliani sentivano rispetto ai palestinesi. Errore gravissimo, e gravissima responsabilità morale. Perché la salvaguardia dello Stato degli ebrei dovrebbe avere per condizione la parità piena delle minoranze, cioè soprattutto della minoranza araba: a doppia ragione, perché la parità che la legge deve garantire ai cittadini dev’essere addirittura premurosa verso una minoranza cui si nega a priori l’eventualità di diventare maggioranza. “Io credo -dice qui Bar-On- che vogliamo uno Stato democratico, con una maggioranza di ebrei che rispetti le minoranze che vivono all’interno dei suoi confini”. Ci si allontana sempre di più da questo proposito.

È questa insuperabile singolarità a segnare l’eccezione di Israele al Tribunale Penale Internazionale, altrimenti che quella degli Stati Uniti. Nel caso americano, una pretesa di immunità, che discende dall’arroganza del gendarme internazionale, ma anche -benché non ne sia giustificata- dalla responsabilità di poliziotto internazionale: e non si tratta purtroppo, nella condizione attuale del pianeta, di un mero gioco di parole. Israele fa della propria perenne emergenza la giustificazione al rifiuto di firmare il Tribunale. Con un paradosso, segnalato qui da Eyal Gross. Israele infatti è autore di quella “Legge contro i crimini di genocidio” che, autorizzando il tribunale israeliano a giudicare chiunque commetta crimini di genocidio nel mondo, anticipò una giurisdizione internazionale. Adi Ophir sottolinea la provvisorietà senza fine che dà mano libera all’occupazione. Lo stesso scacco di Oslo sta anche nella sottovalutazione del calendario di scadenze fissate, come se gli appuntamenti mancati non si tramutassero in una ricaduta all’indietro.
 
Una divergenza, non dirò di convinzioni, ma piuttosto di sentimenti, ha separato sempre più negli ultimi due o tre anni chi ha temuto e avvertito il ritorno in forze della minaccia di cancellazione dello Stato di Israele, e chi la ritiene implausibile, e ne sospetta una strumentalizzazione a spese del diritto e della vita dei palestinesi. Io sono dei primi, benché detesti la strumentalizzazione, e al contrario pensi che proprio la terribile evidenza di quella minaccia renda più urgente il dialogo e la pace secondo giustizia. Il governo di Sharon, e peculiarmente la sua personale tempra, mi sembrano aver preso la strada opposta; e che la concorrenza oltranzista delle organizzazioni palestinesi l’abbia assecondato brutalmente.
Intanto, il terrorismo degli uomini (e donne) bomba ha segnato un passo enorme nella disperata ferocia umana. Né il paragone coi kamikaze giapponesi, né quello con altri attentatori suicidi, i curdi per esempio (anche lì uomini e donne, e anzi donne più significativamente che uomini), valgono per il terrorismo palestinese e la sua combinazione fra l’uso del corpo come arma, e i luoghi della più comune e cordiale convivenza civile come bersaglio. Il primo aspetto, l’uso del corpo come arma, è la sfida lanciata in nome di un mondo povero di risorse tecniche e straripante di corpi giovani, l’arsenale colossale di bombe umane da opporre all’arsenale schiacciante degli armamenti sofisticati di cui dispongono le potenze, e America e Israele specialmente. Il secondo, la strage portata fra i civili nelle loro minute e miti consuetudini quotidiane, ha l’ambizione smisurata di rendere la vita impossibile agli israeliani: di ammazzarli e farli fuggire. (E ci riesce).
Fra le tante verità di questo mondo che non avevamo più saputo né voluto vedere -e quante ancora non vogliamo- c’era anche l’antisemitismo. O piuttosto, lo vedevamo, perfino con una sensibilità irritata, quando riaffiorava da noi, prosecuzione di affezioni naziste e fasciste, o di stereotipi comuni, o risorgenza in un’aggressività frustrata e inebetita di giovani. Non vedevamo la simbiosi fra sollevazione islamista e superstizione anti-israeliana, la continuità impensata fra devozione hitleriana dell’originario nazionalismo arabo e odio schiumante contro l’ “imperialismo sionista”, l’inversione progressiva, impercettibile ma inesorabile, dall’antiamericanismo che trascinava la denuncia di Israele come avamposto dell’imperialismo Usa, all’antisionismo cui si accoda la denuncia degli Stati Uniti come lacchè della piovra sionista... Non vedevamo che in un intero mondo islamico (col tifo di una parte consistente di terzo mondo cristiano), Israele ridiventava il nemico, la posta del grande gioco, il tratto d’unione fra fazioni altrimenti cannibalescamente in guerra fra loro -perché la guerra islamista è prima di tutto guerra contro un altro Islam. Che Saddam Hussein o Osama Bin Laden, o qualunque altro nome fantastico riceva di volta in volta la guerra mondiale dichiarata all’Occidente -cioè, nelle parole del petroliere cadetto saudita, “alle puttane ebree e americane”- avevano il complotto sionista al primo posto dei loro proclami. Alla conferenza di Durban si squarciò il velo: e tuttavia non bastò a prenderne atto. Neanche all’Europa. Quando venne l’11 settembre, fu la volta di una ingente parte della sinistra occidentale a prendere un posto nella condanna del sionismo -e nella confessione dell’antisemitismo. Che, nelle sinistre del socialismo reale, aveva avuto una tradizione greve, ma che ora ridiscendeva alle sue radici profonde, alla fede paranoica della cospirazione universale che trasforma l’opposizione all’imperialismo o, più elegantemente, agli imperi, in una stregonesca superstizione. Non si era fatto nessuno sforzo di interrogarsi sullo scandalo grottesco del successo da best-seller dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion attraverso i continenti e i paesi nuovi, compresi quelli che non avevano mai visto un ebreo, e già si decretava, qui, nel vecchio mondo di Machiavelli e di Freud, un successo da best-seller a volumi che spiegavano l’11 settembre come un complotto della Cia e del Mossad... Formidabili imbecilli, formidabile fede, che riescono a mettere insieme un massacro rivendicato con orgoglio dalle telecamere di Al Jazeera con lo smascheramento delle trame sioniste.
Naturalmente, nessuno di noi può esser sicuro di guardare alle cose senza pregiudizio. Io guardo, nel 2002, a una Internazionale islamista che trae dal Mein Kampf gli argomenti coi quali proclamare il fine supremo della sua guerra: la cancellazione dello Stato di Israele e dell’universale disegno di dominio sionista. Vecchio programma.
 
La rivista mensile Una città, che inaugura un’attività editoriale con questa raccolta, è molto bella. Il suo pregio maggiore sta nella trascrizione non condensata di interviste a donne e uomini che conoscono le questioni, e, specialmente, che le conoscono perché ci si misurano personalmente. Le riviste, anche le migliori, hanno di solito un mezzo pregio, cioè un mezzo difetto: radunano persone che hanno in comune punti di vista e opinioni (anche quando hanno la virtù dell’eclettismo: e allora radunano persone che hanno in comune l’eclettismo). Ora, le opinioni sono importanti, ma non vanno sopravvalutate. Non fino al punto di trascurare che le persone sono fatte per il 49 per cento dalle idee in cui credono e dalle opinioni che professano, e per il 51 per cento (almeno, voglio dire) dalla vita che conducono, o che li conduce. Una città scova persone la cui vita fomenta e verifica le idee. Per questo abbonda di firme di intervistati (e di intervistatori) altrove rare, capaci di dire cose insolite. E non solo per competenza: a volte si tratta proprio di vite raccontate. Per la propria vita, tutti sono un po’ competenti e originali.
Le testimonianze su Israele e Palestina qui raccolte non mancano a questa promessa. Sono competenti, raccontano esperienze politiche e civili, esprimono una partecipazione personale, hanno il tono serio della conversazione su qualcosa che importa molto. Prendono la cosa sul serio. Anche gli intervistatori, che non sono lì per figurare. Alla fine di questa lettura, si saranno capite molte più cose. Non è detto che se ne esca più ottimisti.