Lavorare stanca.
E qualche volta non basta per vivere.
Grave quanto l’alta disoccupazione è l’aumento dei lavoratori poveri; così poveri da non guadagnare abbastanza per vivere. Basta guardarsi intorno, in Italia, anche nei meno poveri nordovest e nordest, per scoprire lavoratori che guadagnano meno di quello che consumano; qualche volta poco più, o addirittura meno, di quello che spendono per lavorare -trasporti, trasferimenti, affitti aggiuntivi. Basti pensare alle retribuzioni di pochi euro l’ora diffuse nei servizi; o confrontare le retribuzioni dei precari immigrati della scuola col costo del trasferimento al nord, dell’affitto, della pendolarità. Ma come fanno; e perché lo fanno? Le risposte le sanno tutti. Attingono dai risparmi; usano la casa e le risorse della generazione precedente. Lo fanno perché poco è meglio di nulla, se devi farti mantenere dai tuoi. Lo fanno perché investono nel futuro, perché sperano di guadagnare punti in una, reale o ipotetica, graduatoria; perché sperano che qualcuno annoti ciò che fanno nel loro book, come si dice adesso -nel "magno volume / du’ non si muta mai bianco né bruno”, come si diceva una volta.
Ma qualche volta rende molto, molto ricchi.
Thomas Piketty (Le capital au XXIe siècle) dimostra che la diseguaglianza nella retribuzione del lavoro è la causa principale dell’aumento della diseguaglianza economica negli ultimi anni. Lavoro, naturalmente, va inteso in senso lato, dall’amministratore delegato al precario nei servizi. Reddito da lavoro è tutto ciò che non è rendita o profitto.
Per dare un’idea globale delle differenze in varie aree riporto da Le capital, p. 390, la distribuzione del monte stipendi e salari per classi di reddito in aree socialmente diverse: Paesi scandinavi negli anni 70-80, diseguaglianza debole; Europa 2010, diseguaglianza media; Stati Uniti 2010, diseguaglianza forte. Le classi di reddito vengono anche definite emblematicamente: l’1% più ricco viene definito classe dominante; il 9%, immediatamente successivo, classe agiata; il 40%, successivo, classe media; il 50% successivo, poveri.
Nei paesi scandinavi la classe dominante prendeva il 5%; la classe agiata il 15% (in totale 20%); la classe media il 45%; i poveri il 35%. Il coefficiente di Gini era 0,19.
Nell’Europa del 2010 la classe dominante prendeva il 7%; la classe agiata il 18% (in totale 25%); la classe media il 45%; i poveri il 30%. Il coefficiente di Gini era 0,26.
Negli Stati Uniti del 2010 la classe dominante prendeva il 12%; la classe agiata il 23% (in totale 35%); la classe media il 40%; i poveri il 25%. Il coefficiente di Gini era 0,36.
Viene data anche l’estrapolazione al 2030, da qui a 16 anni, degli Stati Uniti, che vale quel che vale, ma che riporto per curiosità. La classe dominante arriverebbe al 17%; quella agiata al 28% (in totale 45%); la classe media scenderebbe al 35%; i poveri, metà della popolazione, al 20%. Il coefficiente di Gini sarebbe 0,46.
La diseguaglianza nella proprietà è ancora maggiore. Senza riportare l’intera tabella basti dire che nell’Europa del 1910 l’1% più ricco possedeva metà del capitale e il 9% successivo il 40% (in totale il 90%). Più modestamente negli Stati Uniti del 2010 il 10% più ricco si ferma al 70% del totale della ricchezza; nell’Europa del 2010 si ferma al 60%. I coefficienti di Gini sono rispettivamente 0,85; 0,73; 0,67. Ma in tutte e tre le situazioni la metà più povera della popolazione possiede solo il 5% del capitale. La vera differenza tra il 2010 e il 1910 è che nel 1910, in sostanza, non c’era ceto medio. O meglio, anche il ceto medio possedeva solo il 5% del capitale.
In effetti è questa la discrepanza maggiore rispetto alle comode assunzioni su cui si fondano i modelli neoclassici. C’è chi ha e chi non ha; ci sono i pochi ricchi e i molti poveri, stabilmente tali, una generazione dopo l’altra. Non ci si presenta tutte le mattine sul mercato con le nostre preferenze per decidere se e che cosa vendere o comprare.
Qualcuno, certo, nasce martinitt e diventa proprietario della Luxottica, come Del Vecchio. Ma i suoi figli non ripartono alla pari. Non ripartono alla pari i figli delle grandi famiglie redditiere di Torino; e di tutte le città del mondo. È la proprietà il "terribile e forse non necessario diritto” che determina le nostre vite. Ma, proprio perché, passata la tempesta degli anni 30-70, la proprietà è stabile o, tendenzialmente, si concentra nelle stesse mani, che diventa importante la grande differenza delle retribuzioni da lavoro, che è la componente dinamica della diseguaglianza.
Perché?
La giustificazione corrente delle differenze di retribuzione è che la retribuzione cresce col merito, con l’aumento dell’efficienza, della produttività, e con la scarsità del tipo di lavoro offerto, per ragioni di mercato. La tesi di Piketty, che confronta l’andamento dell’istruzione e della formazione con quello della retribuzione del lavoro qualificato e specializzato negli Stati Uniti e l’andamento delle retribuzioni dei grandi manager con i profitti delle aziende da loro dirette, è che, spesso, questo non sia vero. Le retribuzioni dei manager non scendono quando le aziende vanno male; l’aumento dell’istruzione non ha prodotto il crollo delle retribuzioni degli istruiti.
Le altissime retribuzioni dell’1% dei manager più pagati, forse, non dipende dalla scarsità o dalla efficienza ma dal far parte di un gruppo che può fissarsi lo stipendio da sé e se lo fissa alto, confrontandolo con quello dei propri pari e non con i risultati, o con il numero dei potenziali concorrenti. C’è un effetto bestseller o star system anche per i dirigenti.
Un recensore autorevole come Krugman, ha scritto che questa è la meno convincente delle tesi di Piketty. Io sono convinto da decenni che sia impossibile determinare il contributo del singolo lavoratore alla produttività e tendenzialmente seguo Piketty, con l’avvertenza di leggere i dettagli, di distinguere. Certo, un lavoratore che conosce bene un processo o una strumentazione diventa insostituibile e verrà pagato di più. Che avvenga lo stesso per i dirigenti è possibile. Se è il dirigente stesso che decide la propria insostituibilità si può dubitare molto della sua equità, dello stato di necessità in cui si troverebbe quando decide su di sé.
In Italia abbiamo assistito alla corsa senza fine delle retribuzioni degli alti dirigenti pubblici, che hanno scavalcato i privati, dei direttori di dipartimento dei comuni che hanno guadagnato dieci volte di più dei direttori intermedi di enti importanti, come l’Inps (lo si apprende facilmente digitando qualche nome in rete). Non ne possiamo più della giustificazione assoluta costituita dal mercato.
Dire: "È così perché lo decide il mercato”, equivale a dire: "È così perché è così”. Il mercato dei direttori, dei presidenti, di Trenitalia, dell’Eni, di Finmeccanica, dell’Enel, non esiste.