Franco Balzi è sindaco di Santorso, piccolo comune in provincia di Vicenza.

Da due anni sei sindaco di un piccolo comune dell’alto vicentino, alle prese, come tanti altri, con il fenomeno dell’immigrazione. Puoi raccontare la tua esperienza?
Santorso è un comune di circa seimila abitanti collocato all’interno di un territorio più ampio che chiamiamo alto vicentino e che aveva visto, in questi ultimi anni, una serie di amministrazioni iniziare a collaborare. A Santorso c’è anche una tradizione particolare di presa in carico delle persone fragili. C’è una struttura, Villa Miari, nata come centro riabilitativo per persone con grave handicap fisico dovuto a infortuni sul lavoro. Qui si è collocato anche il primo centro diurno Anffas per persone con disabilità intellettiva. Io ci ho lavorato cinque anni come educatore. È stata la mia prima esperienza professionale. E poi c’era l’Aias. Ecco, credo che queste presenze abbiano contribuito a far entrare nel dna di questa comunità una certa attenzione, anche solo per il contatto fisico con queste persone che comunque uscivano dalle strutture.
Io sono diventato sindaco nel maggio del 2014. Per me si è trattato di un triplo salto mortale nel senso che fino ad allora non avevo mai fatto esperienze di questo tipo. Lavoravo nella cooperazione sociale. Il comune era prima governato da un sindaco appartenente a una lista civica di centro-sinistra, arrivato ormai alla fine del secondo mandato. Sono stato quindi contattato da questo gruppo politico per verificare la mia disponibilità a partecipare alle primarie.
Questa scelta era stata motivata da due obiettivi da parte di chi mi aveva cercato: uno era quello di continuare a lavorare sulla rete sovracomunale costruita negli anni precedenti; l’altro riguardava la percezione che anche negli anni a venire il capitolo del sociale sarebbe stato una delle priorità. Su questo campo in effetti io potevo portare un’esperienza e una visione delle cose.
Al mio insediamento ho anche ereditato un’esperienza, partita quindici anni fa, di accoglienza dei richiedenti asilo. Quando all’epoca il Ministero aveva proposto, su base volontaristica, delle opportunità di questo tipo, Santorso era stato uno dei primi comuni in Italia a far proprio il modello dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), costruendo una rete di una dozzina di comuni che ancora oggi sono operativi.
Parlo di un modello di accoglienza diffusa che prevede piccoli nuclei di 3-4 persone con una dimensione quindi familiare, distribuiti su più comuni. Con questa formula le venticinque persone originariamente previste risultavano una presenza pressoché impercettibile rispetto a quel 10-12% di stranieri comunque presenti.
Questo modello con il tempo si è rivelato il più efficace anche sul piano dei risultati che non erano solo quelli dell’accoglienza ma anche dell’integrazione e inclusione. Certo con qualche fatica in più dopo il 2009 per gli sbocchi lavorativi, però senza alcun tipo di problematica relazionale.
L’accoglienza qui è sempre stata gestita bene, anche grazie a un ente nato proprio con lo scopo di occuparsi di queste persone; che non faceva altro e che continua a fare solo questo; una risorsa importante che nel tempo è stata in grado di mettere a disposizione un patrimonio di competenze anche per altri soggetti che si affacciavano. Insomma, tra i tanti banditi di cui abbiamo letto sui media, teniamo presente che ci sono anche realtà sane, che lavorano in maniera seria. Ecco, le premesse sono queste: seimila abitanti all’interno di un territorio più ampio dove si era costruita una sorta di abitudine a lavorare in rete sull’immigrazione, ma anche sulla sanità, sul sociale, sulle politiche giovanili...
Fino a quando, una mattina, dopo qualche settimana dal tuo insediamento...
Una mattina, mentre bevevo il caffè qui sotto, un cittadino mi dice: "Sindaco, ma le novanta persone arrivate all’albergo in zona industriale le ha fatte venire lei, vero?”. Era una domanda provocatoria: avendo io un passato nel sociale, questa persona era convinta ci fosse stato un mio ruolo in questa scelta. Invece eravamo rimasti vittime di un vero e proprio cortocircuito istituzionale. Sui centoventi comuni della provincia, il prefetto aveva trovato qui la prima soluzione applicativa del modello dei Cas, i centri di accoglienza straordinaria: strutture individuate appunto dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni ...[continua]

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