Puoi parlarci del tuo lavoro?
Sono la capitana delle navi Iuventa e Sea-Watch 3, della flotta civile di salvataggio di stanza nel Mediterraneo centrale. Poiché non esistono vie d’accesso legali e sicure all’Europa, le persone in fuga verso il nostro continente sono costrette a consegnarsi nelle mani di bande di criminali e a prendere la strada del mare, che spesso si rivela mortale. Al momento non esiste nessuna forma statale di salvataggio dei naufraghi, così le Ong hanno dovuto colmare questo vuoto. Noi abbiamo operato di fronte alle coste della Libia, per soccorrere le imbarcazioni in difficoltà e trasportare i passeggeri in un porto sicuro.
Come funziona un’operazione di salvataggio?
Ci teniamo a circa 25-30 miglia di distanza dalle coste libiche, est-nord-ovest, navighiamo avanti e indietro. Con il radar e i cannocchiali perlustriamo il mare alla ricerca di imbarcazioni in avaria. In passato era spesso il Mrcc (Maritime Rescue Coordination Center) di Roma a fornirci le coordinate. Una volta raggiunto il teatro delle operazioni, per prima cosa si devono distribuire giubbotti di salvataggio, perché queste imbarcazioni sono in condizioni pessime, stracolme di persone e possono affondare da un momento all’altro. Poi si cerca di capire se ci sono delle emergenze mediche, se c’è qualcuno che necessita di un soccorso immediato e quindi pian piano imbarchiamo tutti gli altri. A volte siamo noi a trasportare i naufraghi in Italia, altre volte li affidiamo a navi militari o della guardia costiera.
Perché sei sulla terraferma ora?
In Italia sono state aperte delle indagini contro di me e altri nove membri dell’equipaggio della Iuventa. Per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anche se siamo noi quelli che hanno sempre operato in conformità con i precetti del diritto marittimo internazionale: le persone in difficoltà in mare devono essere soccorse. Qualsiasi capitano che non adempia a questo dovere si rende perseguibile penalmente. Ora invece veniamo processati proprio per aver prestato questo soccorso. È per questo che da maggio 2018 non possiamo più fare il nostro lavoro: se veniamo in Italia rischiamo la detenzione cautelare. Non sappiamo quasi niente sulle accuse e probabilmente non apprenderemo altro fino al momento in cui verremo rinviati a giudizio. I nostri avvocati credono che questo succederà quest’estate e pensano che il processo potrebbe durare tre o quattro anni. Fino ad allora siamo bloccati a terra.
Com’è la situazione nel Mediterraneo?
Il tasso di mortalità della rotta mediterranea è aumentato sensibilmente in ragione del fatto che a così tante navi delle Ong viene impedito di svolgere il proprio lavoro. Come noto, la Iuventa è stata confiscata nell’agosto del 2017. La Sea-Watch 3 si trova a Marsiglia e sembra improbabile che le autorità francesi e lo stato di bandiera le diano l’autorizzazione a lasciare il porto per andare in missione.
La Lifeline viene ancora trattenuta dalle autorità maltesi, la Mare Jonio da quelle italiane, la Open Arms non può abbandonare il porto di Barcellona e via dicendo. In questo momento sul teatro delle operazioni si trova soltanto una nave di una Ong, l’Alan Kurdi.
L’espulsione della società civile dal Mediterraneo centrale non significa soltanto che vengono salvate meno persone, ma anche che non ci sono più testimoni che possano raccontare cosa succede laggiù e rendere conto dei misfatti della cosiddetta guardia costiera libica.
La guardia costiera libica è un partner del governo italiano.
Il governo italiano, con il contributo del resto dell’Unione europea, ha dato milioni di euro alla cosiddetta guardia costiera libica, le ha messo a disposizione armi e imbarcazioni. Ma la Libia è un non-stato, è il teatro di una sanguinosa guerra civile e la guardia costiera libica non è altro che un’accozzaglia di milizie cui i governi europei hanno dato delle uniformi nuove. I guardacoste libici sono estremamente brutali, catturano i fuggitivi in mare, li frustano e li minacciano con le armi. Poi, in evidente violazione del diritto internazionale, li riportano in Libia, dove vengono rinchiusi in campi di detenzione in cui sfruttamento, tortura e ...[continua]
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