Hai lavorato a lungo nel campo della sanità pubblica internazionale, puoi parlarci della tua esperienza e spiegarci che cosa si intende per “salute globale”?
Sono stato impegnato sul territorio in vari paesi africani come medico clinico e successivamente in altri paesi per sviluppare i sistemi di sorveglianza per le malattie infettive. La mia esperienza come medico clinico di prima linea alla fine degli anni Settanta in Mozambico, un paese giovane in cui subito dopo l’indipendenza il sistema sanitario era crollato e mancava il personale sia medico che infermieristico (se ricordo bene nei primissimi anni dell’indipendenza c’erano poco più di dieci medici), mi ha permesso di comprendere i bisogni primari della salute delle popolazioni, di capire la dimensione dei veri problemi sanitari e mi ha molto facilitato in seguito, quando sono diventato epidemiologo e ho contribuito a elaborare le politiche di intervento sanitario e soprattutto a metterle in atto sul territorio in contesti molto diversi gli uni dagli altri, e anche in situazioni di crisi ed emergenza.
La “salute globale” è uno degli elementi cruciali, se non l’obiettivo primario, della politica dell’Organizzazione mondiale della sanità. Significa riuscire a portare strutture e servizi sanitari e quindi attenzione sanitaria a tutti.
Purtroppo, questo obiettivo, pur programmato da tempo, rimane tuttora lontano dall’essere raggiunto. Nel mondo un miliardo e seicentomila persone vivono in contesti di crisi che si protraggono da molti anni con conseguenti problemi alimentari, spostamenti forzati di popolazioni, mancanza d’acqua.
Molti paesi in Africa e molte regioni in Asia e America latina mancano di adeguati sistemi sanitari di base capaci di raggiungere le popolazioni a maggior rischio sanitario. Nel mondo intero ci sono circa trentacinque milioni di persone infettate da Hiv/Aids e ne muoiono circa un milione all’anno.
Negli anni le politiche globali, pur con alti e bassi, hanno mantenuto questa logica per cui nei paesi a basso e medio sviluppo gli sforzi andavano concentrati sugli interventi di salute primaria, con particolare riguardo alla salute della donna e del bambino. Questo approccio venne lanciato con la famosa dichiarazione di Alma Ata in occasione della conferenza internazionale del 1978.
Ovviamente, da quando lavoravamo in Africa, ormai quarant’anni fa, i tempi sono cambiati e vari stati nel frattempo hanno visto un’evoluzione economica e sociale.
In Asia molti paesi hanno raggiunto livelli di sviluppo da primo mondo mentre altri ancora presentano situazioni di difficoltà specialmente in alcuni strati sociali. Nel continente africano, il Ruanda, che è passato attraverso un genocidio negli anni Novanta, oggi ha raggiunto un notevole sviluppo nell’ambito sanitario.
Diverso il caso di altre realtà, specialmente dell’area sub-sahariana, dove situazioni di instabilità politiche e sociali determinano condizioni sanitarie ancora molto precarie che limitano anche gli interventi di emergenza su epidemie gravi. Pensiamo alle epidemie di Ebola in Africa occidentale nel 2015, in particolare in Liberia e Sierra Leone, paesi che già erano passati attraverso una lunga guerra civile e dove i sistemi sanitari non sono stati capaci di riprendersi. O all’epidemia di Ebola nella regione del Kivu, nella Repubblica democratica del Congo, avvenuta nel 2018.
Il fatto è che, se non si interviene anche sulle questioni fondamentali, come la sicurezza alimentare, l’acqua, i sistemi di igiene pubblica, i problemi sanitari difficilmente possono essere risolti.
Inoltre ci si chiede se abbia senso pensare che ai paesi in via di sviluppo bastino le cure primarie o se non sia invece più opportuno partire dal presupposto che anch’essi devono poter disporre di tutte le strutture sanitarie come ogni altro paese sviluppato.
Su quest’ultimo tema è interessante il caso della Cina, un paese che ha visto un enorme sviluppo negli ultimi vent’anni. All’inizio la preoccupazione er ...[continua]
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