Stefano Zamagni è preside della facoltà di economia dell’università di Bologna e membro dell’Accademia pontificia delle Scienze.

Come si può costruire una nuova forma di Stato Sociale che tenga presente la difficoltà di coniugare il principio di eguaglianza con la realtà della difformità dei bisogni, due cose, cioè, che sembrano andare in direzioni opposte?
La ragione fondamentale per cui il modello statalista di Stato Sociale è entrato in crisi non è di natura fiscale, la crisi fiscale è un fatto rilevante, ma è l’effetto, non la causa; la causa è rappresentata dalla circostanza che il modello tradizionale di Stato Sociale andava bene per una società in cui i bisogni sono più o meno omogenei ed è questo il caso che si verifica nelle prime fasi di sviluppo economico-sociale di un paese: i bisogni sono più o meno quelli fondamentali: l’alimentazione, la casa, il vestiario, le medicine di base. Ma con l’andar del tempo in Italia, come in altri paesi, siamo usciti dalla categoria dei paesi a basso sviluppo e siamo entrati nell’area dei paesi opulenti. Quello che doveva essere chiaro ai nostri governanti, e purtroppo non lo è stato anche per carenze culturali, è che, quando un paese supera la soglia della sussistenza, i bisogni tendono a differenziarsi. Ecco allora che pretendere di soddisfare alla stessa maniera bisogni, o meglio persone portatrici di bisogni diversi, provoca quello che è sotto gli occhi di tutti: la crisi fiscale da un lato e il malcontento dall’altro. Il paradosso del nostro sistema di welfare è proprio questo: non solo produce debito, ma rende la gente anche scontenta. Ecco perché oggi si devono ripensare alla radice le nuove forme dello Stato Sociale. Il problema è che dobbiamo partire dal concetto che oggi l’eguaglianza non può essere declinata alla vecchia maniera, cioè dare a tutti più o meno lo stesso reddito, la stessa ricchezza; questo ha senso agli inizi del processo di sviluppo, quando i bisogni sono più o meno uguali. Se i bisogni sono diversi, invece, anche se noi uguagliassimo non arriveremmo ad una vera ed autentica eguaglianza intesa come libertà di realizzazione della persona. Se io sono portatore di handicap, posso anche avere le tue stesse risorse, il tuo stesso reddito, ma da quel reddito io, portatore di handicap, non sono in grado di trarre vantaggi e utilità come un altro. Quindi, non basta eguagliare. Bisogna invece tendere ad eguagliare le opportunità, non necessariamente le ricchezze. Il livellamento di tipo ragionieristico -dividiamo la somma di 100 per il numero dei soggetti- è un vecchio modo di concepire le politiche egualitarie che poteva essere giustificato in Marx e negli autori marxisti della prima generazione perché a quell’epoca le condizioni di vita erano quelle, ma oggi non è più così. Il modello che io mi sento di incoraggiare è il modello “societario” di Stato Sociale, in cui il termine societario si oppone al termine statalista, mentre non ritengo che il modello liberista possa sortire gli effetti desiderati, perché sicuramente aggiusterebbe le cose sotto il profilo della finanza, però aumenterebbe in maniera pericolosa e spaventosa le diseguaglianze.
Il problema dell’efficienza: privato uguale efficienza e pubblico uguale inefficienza. E’ un paradigma sempre vero?
L’obiettivo dell’efficienza è importantissimo perché essere inefficienti vuol dire sciupare risorse, ossia portare via risorse ai meno abbienti: non si è mai visto che nella scarsità di risorse siano i più abbienti a rimetterci. In passato la sinistra ha sempre sottovalutato il discorso dell’efficienza e ha sbagliato, alleandosi così senza volerlo con la destra, perché quando applico delle politiche inefficienti e spreco le risorse, sicuramente io faccio dei torti ai più poveri.
Perché la gente, come dice lei, identifica privato ed efficienza? Perché nella nostra cultura di base è diffuso il convincimento per cui ciò che garantisce l’efficienza è il fine del profitto. L’impresa privata, a differenza dello Stato, ha come obbiettivo il profitto, quindi l’impresa privata è efficiente. Dov’è l’errore? L’errore è proprio nel presupposto: ciò che garantisce l’efficienza non è il profitto, ma la competizione. Il profitto è una conseguenza, è l’effetto, non la causa: se un’impresa è efficiente allora fa anche profitto, ma non è necessariamente vero che se fa profitto è efficiente. Molte imprese private non sono affatto efficienti, perché agiscono in regime di monopolio come nel ...[continua]

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