A un anno dalla morte, ricordiamo Claude Lefort con l’intervento di Andrew Arato alla commemorazione organizzata dalla rivista "Constellation” (www.constellationjournal.org) il 30 ottobre 2010 presso la New School di New York.

Lasciamo da parte il luogo comune giornalistico sulle rivoluzioni del 1989. Gli stessi protagonisti parlano, come sappiamo, di rivoluzioni "auto-limitanti”, pacifiche, di velluto, negoziate; termini che indicano la distanza dalla tradizione rivoluzionaria che tutti loro conoscevano fin troppo bene. Anche in Sudafrica nel 1990, pochi parlarono di una rivoluzione per quella che fu a tutti gli effetti una radicale trasformazione del sistema dell’apartheid. Gli analisti, quando non adottano le parole dei protagonisti, parlano di cambio di regime, di transizione democratica e persino di "refolution” (termine coniato dallo storico Timothy Garton Ash, dall’unione di "reform” e "revolution”, per descrivere il processo di radicale ancorché pacifica transizione dal comunismo alla democrazia nei paesi dell’Est nel 1989, ndr).
Claude Lefort si rifiutava di usare "rivoluzione nel senso stretto del termine” per gli eventi e i processi che posero fine al dominio sovietico. Ma non aveva realizzato pienamente, o almeno non desiderava rivendicare o ammettere, che lui era già da molto tempo il filosofo del paradigma post rivoluzionario di trasformazione democratica. Questo status filosofico lo distingueva da Cornelius Castoriadis e anche da Hannah Arendt. L’atteggiamento di Lefort nei confronti della grandi rivoluzioni della modernità e in particolare verso la Rivoluzione francese, la cui storia e i cui storici rileggeva di continuo, era complesso. Lui sosteneva l’evento, l’esperienza, le forme iniziali di auto-organizzazione spontanea e anche la violenza di quelle successive; ma soprattutto quello che lui era giunto a considerare il significato democratico del "fenomeno rivoluzionario”. Ma era un critico molto severo della tradizione fondata sull’ideologia rivoluzionaria che i rivoluzionari stessi hanno creato per identificare se stessi e le loro azioni. Le grandi rivoluzioni del secolo XVIII, dal suo punto di vista, erano il luogo d’invenzione della moderna democrazia, nel suo specifico senso del termine: avevano aperto lo spazio di potere prima occupato dal corpo politico-religioso del Re, e stabilito una forma di legittimità e istituzioni designate sia a preservare questo spazio simbolico sia a tenerlo libero da ogni forma sostitutiva di potere. La separazione del potere dall’autorità e dalla conoscenza era un importante corollario. Le stesse rivoluzioni -Lefort enfatizza quella francese, ma seguendo Hannah Arendt io aggiungerei quella Americana (Arato-Cohen "Banishing the Sovereign?” in Politics in Dark Times)- hanno però generato pure il principio che minaccia la conservazione di quello spazio vuoto: la sovranità popolare, nel senso di un soggetto che incarna un gruppo, per quanto esteso, una classe sociale, per quanto povera, un’istituzione o una persona, per quanto popolare. Lefort sottolineava pertanto come fosse sbagliato vedere la deformazione della Rivoluzione francese come un processo accaduto a metà strada; il principio che poteva portare alla dittatura (che lui non interpretava comunque come totalitarismo) era presente sin dall’inizio ("Revolution within the French Revolution” in Democracy and Political Theory). Lefort evidenziava il ruolo che l’immaginario rivoluzionario ha nel chiudere lo spazio democratico, ponendo una finzione del popolo nel posto del potere, e pertanto aprendo una grande distanza tra il popolo ideale e quello empirico in una cornice di relazioni amico-nemico tipica della dittatura (Ibid.). Questo punto di vista, come ha dimostrato Samuel Moyn, si rifaceva a Furet, ma Lefort rifiutava di vedere l’intera Rivoluzione francese in questi termini.
Per quanto presente sin dal principio, la politica dell’immaginario rivoluzionario, almeno nella Rivoluzione francese, non era solo inizialmente più debole del nuovo principio democratico; non riuscì mai a prevalere completamente sul rivale per formare un nuovo "regime”. Ciò che non viene detto abbastanza chiaramente è che Lefort vede la dittatura rivoluzionaria in termini classici, cioè come non permanente (per la sua idea di dittatura non-totalitaria si veda: "Reflections on the Present”).
Le cose stanno in modo diverso nelle rivoluzioni successive, come Marx analizza brillantemente nel "18 Brumaio” e come ...[continua]

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