il Marocco e tutti noi il 30 novembre abbiamo perso una delle voci più limpide, sincere e coraggiose del panorama intellettuale mondiale: Fatema Mernissi s’è infatti spenta a Rabat, all’età di settantacinque anni. Un nome che volava di bocca in bocca, citato spesso e volentieri da tutte quelle persone appassionate di diritti civili, di femminismo, di democrazia nel Bacino del Mediterraneo, tra Islam e "Occidente”. Un volo ben rappresentato dal "Verbo degli Uccelli” di Farid ad din-’Attar (Persia, XII secolo), un viaggio alla ricerca del Simorgh.
Dal Marocco il suo pensiero ha fatto il giro del mondo nelle numerose lingue in cui sono stati tradotti i suoi libri, ed era un pensiero ricco di esperienza e di studio, maturato in anni di formazione tra Marocco, Francia e Stati Uniti, che si concentrò soprattutto sul suo amatissimo Paese, nella sua gente, da cui sapeva trarre insegnamenti profondi e che lei sapeva valorizzare come pochi altri.
Una creatività mai appagata veramente la conduceva a organizzare, forte dell’Accademia cui apparteneva, corsi di scrittura su temi scottanti di attualità. E a girare instancabile il Marocco alla ricerca di quelle figure che ne dimostrassero una vivacità di nascente democrazia, dal basso. Amava ricordare come con internet e la diffusione linguistica in Marocco il pensiero evolvesse più rapidamente di quanto ci si sarebbe potuti aspettare; aveva anticipato molti anni prima quello che sarebbe stato il movente delle Primavere arabe, per la potenzialità del mezzo informatico nel mobilitare e informare, un mondo, quello dei Paesi Arabi, apparentemente così statico, eppure così giovane. Organizzò ancora Carovane civiche per costruire reti di conoscenza e di buone pratiche, che mettessero in luce quelle figure apparentemente minori della società civile marocchina, in realtà le stesse che stavano costruendo un’immagine nuova del Paese, una speranza credibile e concreta. Carovane del libro con Jamila Hassoune, per portare la lettura anche nelle zone più remote del Paese. L’animava una creatività unica, probabile retaggio di quella "terrazza proibita” tra le mura domestiche e il cielo, in cui aveva trascorso lunghi momenti dell’infanzia.
Mi piace ricordarla soprattutto per la sua enorme capacità di valorizzare gli altri, le donne della rinascita popolare marocchina. Ebbi la fortuna di incontrarne una, anni fa, a Essaouira: Regragria Benhila, pittrice, coetanea di Fatema, mancata prima di lei ancora nel 2009. All’epoca governava la città, la prima sindaco donna del Marocco; Asmaa Chaabi, di famiglia ricchissima e potente. Fatema, nata da una famiglia di classe media, fortunata perché aveva potuto condurre i suoi studi all’estero, lottava per l’emancipazione femminile a partire dall’analisi dei testi, dalle storie di donne nell’Islam, dalla sua stessa esperienza, e poi amava imbattersi nelle figure emozionanti di donne di basse condizioni sociali che riuscivano, forti di quella stessa saggezza popolare che solo l’esperienza di vita può donare, a emergere, ad affermarsi e portare in luce i valori umani più profondi. Regragria era tra queste. La sua storia commovente è raccontata da Fatema nelle pagine di Karawan, dal deserto al web (Giunti, 2004): "Secondo Regragria […] l’importante è mantenersi saldi nella ricerca della felicità, anche quando la sfortuna bussa alla tua porta. È la direzione del tuo sguardo a influenzare la direzione della barca, per scatenate che siano le onde e le tempeste che la sconquassano. Regragria possiede la caparbia volontà di essere felice tipica delle generazioni di prima del vaccino, della penicillina, dell’aspirina e della televisione. La generazione dei dannati della terra, destinati a non contare che sulla propria energia interiore per generare la luce che rischiarerà le tenebre, Regragria è esattamente il contrario dei bakau’yin, i lacrimanti piagnoni così numerosi a Rabat che mi danno l’ansia recitando la lista di quel che non va nel pianeta. Si scopre, ascoltando Regragria, che spesso ci fabbrichiamo da soli la nostra prigione. Per questa donna che non aveva mai messo piede a scuola e non cessava di disegnare i suoi sogni in un quaderno con le matite colorate, entrare in una galleria d’arte era un desiderio costante. Ma aveva paura che il guardiano la cacciasse perché indossava l’haìk (il velo tradizionale della donna lavoratrice a Essaouira). Spesso si dimentica che in Marocco la spaccatura tra classi sociali è enorme. Ci ...[continua]
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