Questa differenza di prospettiva non cancella la fisionomia del suo stare, vitalissimo, fra noi, del suo bisogno -e nostro- di vivere intensamente, insieme, la gioia e il tormento di appartenere a una generazione chiamata a costruire nuova giustizia e nuove libertà; ma mi spinge a ricordare, non, come altre volte, qualche tappa del nostro camminare insieme, ma un momento fondamentale, "il” momento fondamentale, della nostra amicizia: e cioè il tempo e il luogo in cui ci conoscemmo.
Fu all’inizio degli anni 70, a Roma. Cooperative e palazzinari ultimarono un’estensione del quartiere denominato Nuovo Salario e subito tremila persone si precipitarono ad abitarvi. In realtà mancavano strade asfaltate, mancavano telefoni, mancava la chiesa parrocchiale e la messa domenicale veniva celebrata in un garage. Il sacerdote che fungeva da parroco soffriva di irrisolti problemi psichici. Ai limiti delle case per borghesi c’era la borgata detta di Pratorotondo: una quarantina di abitazioni "improprie”, popolate da sfasciatori di vecchie auto, ortolani e chissà quali altri modi per sopravvivere. Nessuno dei borgatari veniva mai a messa, la differenza di classe sociale segnava un limite invalicabile. Poco più avanti, in un grande parco, c’era l’Ateneo Salesiano.
Dopo un ovvio periodo di spaesamento, un gruppetto di cattolici "militanti” (come si diceva allora di quelli che non si limitavano ad andare ad assistere alle messe) decise di dare impulso alla formazione di una comunità cristiana. Ci cercammo uno ad uno, ci incontrammo e la prima riunione si auto-convocò proprio in casa di Lamberto e Maria Angela: bellissima coppia giovanile. Come avviene facilmente a Roma, nessuno di noi era romano e forse questo ci spingeva a mettere radici insieme. Eravamo quasi tutti quarantenni, genitori di due, tre o quattro figli. Di quella serata ho un ricordo commosso, sapeva di Vangelo.
Scoprendoci assai più fratelli e sorelle che semplici coinquilini, esprimemmo quella sera speranze, promesse, esperienze. È in questo laboratorio cristiano che scoprii, scoprimmo, Lamberto: una persona di vitalità prorompente, di profonda cultura, sensibilissimo ai problemi della giustizia, della libertà, dell’etica e nello stesso tempo pronto al sorriso, alla polemica, anche pepata, alla rapida riconciliazione, alla preghiera, all’ottimismo senza faciloneria.
Negli anni che seguirono la presenza di Lamberto nel gruppo fu quella di un leader senza pennacchi e senza altezzosità. Era un grande lavoratore ma spesso lottava fieramente contro qualche obbligo che lui considerava relativo benché imposto da un "superiore”: sottile pedagogo, non dimenticava mai i diritti dei suoi bambini. Né quelli dell’amicizia. Né quelli della verità, come si vide nel suo patire.
Sul suo comportamento nei confronti del cancro abbiamo -giustamente!- scritto a lungo: Papa Giovanni ci aveva insegnato a distinguere il peccato dal peccatore, Lamberto ci insegnò a distinguere il malato dalla malattia. Ricordo di averlo sentito domandare con gentilezza a una cara signora che "per non stancarlo” gli negava notizie che lui considerava importanti: "Ma tu sei venuta a fare visita a me o alla mia malattia?”. Quel giorno la sua morte era ormai vicina, ma Lamberto seguiva con appassionato interesse il travaglio della Chiesa del Concilio.
Penso sia davvero giusto e opportuno, oggi, ricordare la coraggiosa coerenza del nostro grande amico senza che il nostro rimpianto assuma i colori funebri del rimpianto o quelli chiassosi della celebrazione mondana. ...[continua]
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