Stefano Piperno dirige l’area di ricerca Politiche pubbliche dell’Ires-Istituto di Ricerche Economiche e Sociali del Piemonte, di cui è anche vicedirettore. È stato docente di Scienza delle finanze e sistemi fiscali nell’Università di Torino e ha svolto attività di consulenza nel campo del federalismo fiscale in Italia e all’estero. Ha pubblicato, tra l’altro, La finanza decentrata in Italia, Il Mulino, 2013.

La storia del decentramento fiscale è cominciata negli anni Settanta...
Quando si trattano questi temi, in genere si colgono poco gli aspetti anche politici che stanno dietro il fenomeno fiscale. Come professione, io sono un economista pubblico, però mi appassiona molto anche l’approccio sociologico. C’è proprio un filone della letteratura che si chiama "sociologia fiscale”, nata da un grande economista, Schumpeter, che aveva scritto un articolo molto bello, "The crisis of the tax state”, mettendo in luce come i grandi sommovimenti politici nascono spesso da problematiche di tipo fiscale.
Una cosa che nessuno ricorda è che il governo Thatcher è caduto per un problema di imposta locale. Nell’89-’90 lei sostituì le imposte locali, imposte immobiliari tipo la nostra Ici, che tenevano conto delle differenze di ricchezza e quindi erano in qualche misura progressive, con un’imposta capitaria, un’imposta a somma fissa, stabilita in misura eguale per tutti i contribuenti, la famigerata "poll tax”. L’idea era che la redistribuzione si sarebbe fatta a livello di governo centrale e quindi a livello locale non si doveva tener conto di questo aspetto.
Ebbene, questa riforma ha portato a delle rivolte popolari. Lo stesso "Economist” diceva "vote with your fist” (in genere la formula è "vote with your feet”, cioè se non ti piace dove vivi, vai a stare da un’altra parte). Ho conservato i ritagli: vere e proprie barricate.
Viene subito da ripensare a tutto il dibattito svoltosi attorno alla vicenda paradossale dell’imposta, peraltro solo sulla prima casa, che comunque valeva quattro miliardi di euro, una cifra non indifferente. Questo per dire che c’è anche tutto questo versante da indagare, volendo fare una storia ragionata del decentramento fiscale in Italia.
La storia della finanza decentrata è anche lo specchio dei rapporti interistituzionali, oltre che tra classi politiche locali e nazionali.
Lo stesso cambiamento del sistema fiscale può creare delle classi politiche locali. Quando, nella seconda metà degli anni Novanta, è stata costituita una discreta autonomia tributaria dei comuni, gradualmente è cambiata anche la classe politica municipale. Ci sono delle ricerche che mettono in luce come i sindaci oggi sono meno espressione dei vecchi partiti e più di ceti manageriali, politici; recentemente è uscito un contributo su lavoce.info. Quando si parla di finanza locale, in genere si pensa ai comuni, in ­realtà noi abbiamo tre mondi completamente diversi che hanno avuto un’evoluzione altrettanto diversa. Non a caso, uno dei problemi della finanza decentrata è lo scarso coordinamento tra gli ordinamenti subcentrali: da un lato la regione, dall’altro le province e i comuni. Sono due mondi scollegati che rischiano di andare avanti ciascuno per conto proprio.
Oggi poi la finanza regionale è basata prevalentemente sul finanziamento del servizio sanitario. Già questo sbilanciamento crea un problema rispetto al ruolo e alle capacità di svolgere una funzione strategica da parte dell’amministrazione regionale. Se infatti togliamo la spesa sanitaria, siamo nella dimensione di un comune medio-piccolo, tant’è vero che i grandi comuni si disinteressano delle regioni. Come si possa trovare una soluzione non lo so. Certo è che sarebbe il caso di prenderne atto e aprire un dibattito su questo.
Ora è entrata in vigore la nuova legge Del Rio, quindi è probabile che si assisterà a un riequilibrio istituzionale. Gli esiti è difficile valutarli ex ante perché legati anche al discorso del nuovo Senato che chiaramente diventerà un’arena per le autonomie territoriali.
Personalmente, non vedo male l’idea del nuovo Senato, pur con le critiche, alcune legittime, che sono state avanzate.
Qui c’è un problema strutturale: i dati ci dicono che a partire dall’inizio degli anni Duemila tra il 30 e il 34% della spesa pubblica viene gestita dalle amministrazioni locali: regioni, province e comuni. Se poi togliamo dalla torta complessiva le pensioni (che non sono né centro né periferia) e gli interessi del debito pub ...[continua]

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