Cari amici,
vi scrivo in quello che sarà l’ultimo giorno di Occupy Hong Kong: lo sgombero generale è previsto per domattina, e ancora non posso prevedere quanto tempo richiederà, o quanto sarà violento. Nei giorni scorsi, quando la polizia ha lanciato le prime operazioni di sgombero a Mongkok, un quartiere popolare e commerciale della penisola di Kowloon, o in alcune aree di Admiralty, nel mezzo del distretto del business, barriere costruite con impegno per ore e rinforzate nel corso di settimane si sono sciolte in un baleno davanti alle operazioni di polizia, per cui forse anche il campo principale delle proteste sarà ripulito in meno tempo di quanto non sembri possibile. Rispetto alla violenza, di nuovo, difficile fare previsioni: il passato ha mostrato una polizia molto più aggressiva e cattiva di quanto Hong Kong non fosse abituata a credere e ora che il danno è fatto e che è così profondo, è difficile immaginare che i metodi cambino, se non in peggio. Per cui, quello di cui posso scrivervi è quello che è successo, e il grande cambiamento che ha impresso a Hong Kong. Lo dice del resto uno slogan dipinto su un telo ad  Admiralty: "Potete toglierci dalle strade, ma non potrete togliere dai nostri cuori il desiderio di democrazia”.
Quello di cui posso scrivervi, con inevitabile emozione, è quanto straordinarie siano state queste nove settimane, non solo per una protesta le cui dimensioni hanno lasciato tutti sorpresi, ma anche per i metodi che ha assunto, così nuovi. Prima di tutto, il linguaggio usato: immaginatevi migliaia di adesivi, bandierine, magliette, tutto il possibile, con scritto in grosso i cinque caratteri cinesi che compongono la frase "Voglio un vero suffragio universale”, neri su giallo. Quella prima persona singolare del "voglio” ("Ngo yiu”, in cantonese) è inaudita nelle proteste cinesi, che di solito grondano romanticismo e patriottismo-nazionalismo anche quando chiedono democrazia; nelle proteste cinesi, di solito, si parla in modo ancora contagiato da anni di impero: "Le masse piangono!”, dicono, "Il popolo chiede ascolto!”, supplicano, "I figli della Cina soffrono!”, lamentano. Non qui, dove i manifestanti di Hong Kong hanno dato prova di una libertà di pensiero entusiasmante. Dopo lo sgombero a Mongkok, un quartiere pieno di piccoli negozi, il Capo dell’Esecutivo di Hong Kong, il detestato CY Leung, ha detto in televisione:  "Ora che le tende sono state finalmente sgomberate, andate a fare shopping a Mongkok per aiutare i commercianti danneggiati dall’occupazione”, e così dalla fine di novembre ci sono alcune centinaia di persone che la sera vanno a Mongkok a manifestare dicendo che sono lì per fare "shopping”. E ogni sera la polizia li schiaccia contro i marciapiedi, nei vicoletti di Mongkok, e loro ricominciano ad avanzare, a muoversi, a cercare di attraversare le strade facendo cadere monetine nel mezzo per poi fermarsi a raccoglierle, o che si chinano ad allacciarsi le scarpe, per bloccare il traffico, e avanzano verso i poliziotti in tenuta anti sommossa scandendo tutti: "Voglio un vero suffragio universale. Voglio un vero suffragio universale. Voglio un vero suffragio universale”. Una frase unica, diretta, semplice, la richiesta di rappresentazione popolare che Hong Kong ancora non ha, malgrado le promesse e malgrado il suo livello di sviluppo politico, sociale, culturale ed economico. Ogni tanto lo slogan, quando la polizia mena davvero forte, cambia e diventa solo "Polizia nera! Polizia nera!”, ma poi riprende l’insistente frase "Ngo yiu jian poshun”: voglio un vero suffragio universale. E non quello che Pechino propone, in cui tutti avranno il diritto di votare per due, massimo tre candidati pre-selezionati da un comitato di 1.200 persone scelte a loro volta dal governo centrale. Pechino, infatti, ha da anni una nuova strategia davanti al mondo esteriore, che possiamo chiamare semplicemente "offuscamento”: davanti alle crescenti disparità fra la verità e la propaganda, ecco che Pechino crea gli Istituti Confucio e moltiplica i suoi investimenti all’estero nei mezzi di comunicazione -che siano gli uffici Xinhua, le televisioni cinesi o i finanziamenti a gruppi di informazione in lingue straniere. Così la propaganda cinese diventa sempre più diffusa. Davanti alla consapevolezza politica di Hong Kong, sempre più evidente, ecco che Pechino crea questo sistema a strati in cui un comitato selettivo sceglie un comitato elettorale che approva alcuni candidati che poi, solo poi, possono essere presentati alle elezioni -mantenendo viva la finzione di democraticità con un parlamento per metà pieno di persone selezionate dai gruppi di interesse economico favorevoli alla Cina, e per l’altra metà soltanto di eletti a suffragio universale. In mezzo a questi esempi ve ne sono altri mille, in cui l’importante, per Pechino, sembra essere proprio questo: offuscare. Confondere le acque. Screditare i gruppi di dissidenti in esilio, che siano tibetani, cinesi o uiguri, per non parlare dei temi che sollevano.
Hong Kong si è dimostrata in queste nove settimane splendidamente testarda: troppo libera per cascare nelle trappole retoriche o nelle lusinghe economiche che vengono dal governo centrale, ha chiesto con serietà e intelligenza il suo suffragio universale promesso, ma non ha ricevuto nulla, assolutamente nulla in cambio. Il governo è riuscito a restare sordo, per 73 giorni, alla richiesta di dialogo. Ma Hong Kong è cambiata: una generazione intera è stata formata al dissenso politico e all’autonomia di pensiero, e in questo l’hanno sostenuta centinaia di migliaia di persone di tutte le età. Quello che è successo in questi mesi ha cambiato la storia di Hong Kong, la periferia cinese più testarda e combattiva che Pechino abbia mai trovato sul proprio cammino.
Ilaria Maria Sala