Il mio intervento vuole proporre alcune prospettive di lavoro ispirate all’ottimismo e all’idea che “ce la possiamo fare a uscire dalla crisi”. Ma bisogna fare una chiara premessa: l’Italia sta declinando e il declino parte dal sistema produttivo. Dobbiamo capire perché. Come ha ben spiegato chi mi ha preceduto, il lavoro sta cambiando e peggiorando e il sindacato ha molti problemi. Il governo, in passato, ha cercato di tenere in piedi il sistema delle imprese con interventi di piccoli sgravi fiscali, che in alcuni casi si sono rivelati addirittura controproducenti. Aggiungo a quello che è già stato detto che spesso regimi fiscali che sembrano favorevoli alla fine fanno declinare il lavoro: non è sempre vero che lo favoriscono. Ad esempio, per molti anni lo straordinario ha goduto di incentivi fiscali, ma questo ha contribuito a ridurre la produttività e a far chiudere le imprese, come chiunque lavora in una fabbrica può verificare facilmente. Un altro esempio sono le gare al ribasso per le imprese cooperative dei servizi sociali, che fanno declinare la loro capacità innovativa. A mio avviso il declino attuale e la crisi che stiamo vivendo sono per certi versi peggiori della crisi del ’29. Infatti negli anni Trenta, dopo alcuni anni terribili, c’era stata una leggera ripresa per merito delle politiche pubbliche, sia in Europa sia soprattutto in America.
Qui, oggi, siamo invece ancora nel pieno di una crisi che dura ormai da una decina d’anni; una crisi paragonabile piuttosto al crollo delle esportazioni italiane alla metà del Seicento e alla fine del Rinascimento. All’epoca le grandi manifatture italiane che operavano a Firenze, Milano, Venezia e Genova erano di altissimo livello, tanto che qualche storico ha affermato che eravamo quasi alle soglie della rivoluzione industriale. Quelle manifatture hanno fatto la ricchezza delle nostre città perché con i loro guadagni si sono costruite cattedrali, chiese, torri, mura, e c’è stato Leonardo, Michelangelo e la grande arte del Rinascimento. Tutto questo crollò alla metà del Seicento, per la difficoltà della manifattura italiana di adeguarsi all’internazionalizzazione, alle scoperte delle Americhe, ai viaggi transoceanici, alla globalizzazione dell’epoca.
Allora perché l’Italia oggi è in declino, perché va male? Mi riallaccio a Sergio Bologna: il malato da noi è l’impresa. Stiamo curando il lavoro, siamo giustamente intervenuti sul precariato, si sono succedute cinque o sei riforme del lavoro. Ma non c’è stato alcun intervento sulle imprese.
È stato un grande errore perché da noi il problema è proprio il sistema delle imprese, insieme a un gap culturale e a una scarsa consapevolezza della portata dei problemi. Abbiamo studiato a fondo la precarizzazione del lavoro; abbiamo osservato i fenomeni di frantumazione dei cicli, di decentramento, così come l’impoverimento di alcuni settori, però non abbiamo visto l’internazionalizzazione dell’economia e le sue opportunità; non abbiamo visto l’impatto delle tecnologie digitali, su cui solo oggi si comincia a ragionare, ma sempre con un provincialismo culturale che lascia sgomenti.
Nel nostro paese la vera spaccatura, più ancora che tra nord e sud, è diventata quella fra le imprese che si sono agganciate, o sono diventate un network globale di produzione e quelle che non sono riuscite a cambiare il modo di produzione.
Con “network globale di produzione” si intendono le imprese che hanno costruito una rete di produzione e di vendita internazionale per coprire i principali mercati del mondo, che sanno gestire oculatamente l’acquisto di materie prime, componenti, semilavorati, e che crescono di valore. Sono le imprese che assumono, che investono e che si innovano continuamente; i nomi sono noti, Ferrero, Ferrari auto, Luxottica, Eni, Enel, Fincantieri, Barilla, Aia e tanti altri. La stessa Fca è uscita dalla crisi diventando un network globale, attraverso la fusione con Chrysler; e questa è forse l’unica vicenda che è stata un pochino seguita nei mass media. Ma poi ci sono anche tante piccole e medie imprese. Non serve avere diecimila dipendenti per diventare network globale, basta averne molto meno per diventarlo oppure per agganciarsi come fornitore di qualità nella filiera di un network globale, come ha fatto ad esempio la Brembo nel settore automobilistico.
Invece in Italia che cosa è stato fatto? Abbiamo dismesso anche chi forse ce la poteva fare; ad esempio abbiamo vendu ...[continua]
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