Yasime Sall, senegalese, è in Italia dal 1990, lavora come mediatrice lingiuistico-culturale presso la clinica Mangiagalli di Milano e presso il consultorio di Cinisello Balsamo. Opera anche per l’Ufficio Minori del Comune e del Tribunale di Milano.

Esistono differenze specifiche fra il modo di vivere la maternità delle donne senegalesi e quello delle donne italiane?
Certamente sì, anche se variano molto a seconda della zona di provenienza del Senegal. Un conto è venire dalla campagna, un conto è venire dalle grandi metropoli. In generale, le donne italiane tendono a medicalizzare molto di più gravidanza e parto. Sembrano più insicure. Le donne senegalesi, invece, non sono abituate ad una massiccia presenza medica. Vivono la maternità come evento naturale, facente parte del loro destino.
Il figlio è sempre e comunque figlio di Dio e conferisce nuova importanza alla donna.
Anche per le donne senegalesi, come per le arabe, la maternità è una faccenda fra donne?
Sì, senz’altro. La si vive in modo comunitario ma fra donne, delle quali si ricerca il sostegno, soprattutto nella fase avanzata. Questo però non deve indurre a pensare che fra di loro parlino molto, anzi. Direi che una delle cose che più disorienta una donna senegalese nel suo inserirsi nella realtà italiana, è la quantità di parole che vengono usate per parlare della maternità, del bambino che ancora non si vede. In Senegal si dichiara il proprio stato molto tardi, quando il bambino, grazie al suo muoversi, è percepito chiaramente. Oppure lo si dichiara quando oramai l’ingrossarsi del ventre impedisce di nasconderlo. La lingua è considerata negativa, si dice faccia male. Meno la si usa, meglio è.
Come mai questo bisogno di nascondere? Che cosa temono?
In Senegal è abbastanza diffusa la poligamia e l’avere un figlio accresce il potere della donna all’interno della famiglia. Crescendo questo potere cresce anche l’invidia, la rabbia delle altre. Da qui la necessità di nascondere la gravidanza il più possibile e di proteggere il bambino con amuleti e offerte propiziatorie.
Qui però la poligamia è reato...
La necessità di proteggere il figlio non dipende solo dall’invidia delle altre, ma da quello che noi chiamiamo Rap, una sorta di “doppio” che ognuno ha, la cui influenza può essere buona o cattiva. In Senegal, quando ha bisogno di protezione, perché non sente il movimento del figlio o perché avverte l’ostilità delle altre, la donna non pensa al monitoraggio ma piuttosto al colloquio con il Marabutto, lo stregone del villaggio. Qui in Italia probabilmente ricerca di più sostegno in altre donne che incontra, o nelle persone presenti nelle strutture sanitarie. Non a caso si lamentano sempre del poco tempo che hanno a disposizione per parlare con il medico, con l’ostetrica, con l’operatore del consultorio.
Come viene vissuta l’accesa medicalizzazione della gravidanza?
Senza grandi conflitti. Anche l’ecografia induce meraviglia, non timore. Le difficoltà fra donne senegalesi e struttura sanitaria sorgono soprattutto per una diversa percezione del tempo. Fra le donne senegalesi sono molto comuni i ritardi. La donna ha appuntamento per le dieci e facilmente arriva a mezzogiorno, all’una. Le è difficile capire il perché il medico non ci sia più, l’irritazione che provoca il suo ritardo. E questo perché in Senegal la percezione del tempo è molto diversa. Non esiste la scansione al minuto, lo stare sempre con l’orologio al polso. Allo stesso modo il tempo della gravidanza non viene suddiviso in settimane ma percepito e scandito dalla sola dimensione del ventre. Questa particolare dimensione del tempo è un fattore che incide anche nella scelta di un contraccettivo. Per una donna del Senegal il ritmo ferreo della pillola, per esempio, è impensabile.
Ci puoi descrivere il tuo modo di lavorare?
Varia molto a seconda delle persone che s’incontrano, e soprattutto dipende molto dal fatto che la presenza del mediatore all’interno della struttura sia già consolidata o, invece, del tutto estemporanea. Il mio lavoro consiste non solo nel tradurre ma nel rendere comprensibili all’operatore italiano (e viceversa) comportamenti che in caso contrario vengono totalmente travisati. Ti posso raccontare una storia, come esempio. Tempo fa fui chiamata alla Mangiagalli per Fatou, una donna di quarant’anni, analfabeta. Il suo era un caso fuori dalla norma perché era venuta in Italia da sola, lasciando in Senegal il marito e altri sei figli. Incinta, non ave ...[continua]

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