Alberta Bacci, ginecologa, lavora all’Istituto per l’infanzia Burlo Garofalo di Trieste e, all’interno dell’istituto, alla Unit for Health Services Research and International Cooperation. Dal 1989 al 1994 ha lavorato a Maputo, in Mozambico e, da allora, segue diversi progetti in paesi in via di sviluppo.

Perché hai scelto di andare a lavorare in Mozambico, sola e con una bambina piccola?
Per stupido, o sano, idealismo. Il mio ospedale aveva organizzato un progetto di cooperazione che prevedeva l’appoggio all’ospedale centrale di Maputo e la rimessa in funzione di un ospedale regionale. Sono partita.
Quale è stato il primo impatto?
I primi giorni ero piena di ansia, di paura. Il Mozambico era un paese in guerra e la vita non era certo facile. Anche l’inizio del mio lavoro è stato traumatico. Ti trovi in una realtà complessa, lingua diversa, costumi diversi, ti trovi davanti a patologie anche gravissime che non hai mai visto, al massimo hai letto nei libri. In più lavori in situazioni estreme.
C’erano morti e feriti per la guerra, per cui spesso mancava il sangue: avevi un intervento, una donna stava per morire dissanguata e non avevi il sangue. Stavi operando e andava via la luce. Spesso mi sentivo completamente impotente, poi impari ad adeguarti. Ti fai una preparazione sul campo, da sola, perché la preparazione che si ha nel nostro paese è assolutamente diversa da quello che poi ti viene richiesto. Il primo anno è stato intensamente dedicato al lavoro, anche come testa. Parlavo e scrivevo essenzialmente di lavoro. Il confronto con le donne legate alle pratiche della tradizione è stato non solo clinico ma anche culturale.
Tra i vari choc questo è stato il meno scioccante. Spesso le donne, quelle più anziane o che venivano da posti più lontani, avevano scarificazioni sulla pelle o portavano amuleti. Ma questo è entrato subito a fare parte del normale. Non mi stupivano né soprattutto mi turbavano. Io cercavo semplicemente di dare delle informazioni su una serie di tabù e contro indicazioni che loro subiscono durante la gravidanza. Per esempio, non mangiare uova perché nasce un bambino calvo. Magari l’unica fonte di proteine che introducono in un mese è proprio l’uovo, allora è fondamentale spiegarlo. Tutti seguono le pratiche tradizionali. In un ospedaletto dove andavo a fare l’alto rischio c’era un’ostetrica che era anche curandera. Finito il lavoro si toglieva il camice bianco e la crestina inamidata e a casa ballava, faceva i sacrifici con il sangue e tutto il resto.
Conoscevi questa realtà prima di partire? I medici che vanno in cooperazione vengono preparati alle tradizioni delle popolazioni con cui si troveranno a lavorare?
Moltissimi arrivano impreparati. Farsi un minimo di cultura e conoscenza è una strada personale e poi sia prima che quando arrivi conta la disponibilità a capire. Ci sono invece organizzazioni, generalmente non governative, che fanno un lavoro serio e ti preparano sia sui problemi medici che di geografia politica, cultura, società. Ed è un lavoro molto importante perché ho visto disastri, gente che dopo pochi mesi scappava.
Perché alcuni vanno se non sanno cosa affronteranno?
Perché ci sono idee sbagliate sulla cooperazione. Una cosa che tutti mi dicevano, usando linguaggi diversi, ma il senso finale era lo stesso: “Ah, vai là a insegnare”. Nessuno si poneva l’idea che magari impari anche. Io per un anno ho praticamente solo imparato e poi ho cominciato a restituire qualcosa di positivo e di adeguato. Vorrei non sprecare parole per quelli, e intendo colleghi, che ti dicono: “Ah, sei stata in Africa, come mai non sei abbronzata?”. Perché c’è anche questa visione della cooperazione sulla spiaggia sotto una palma.
Devo dire che dopo il Mozambico non ho più lavorato con la cooperazione italiana. Intanto perché per norma non puoi lavorare per più di tre anni. Se per me era difficile capire e accettare questa norma, ancora di più lo era per i mozambicani. Ma come, sei qui, hai raggiunto una capacità in ostetricia che non è comunissima, conosci bene la lingua e la situazione e devi andartene. Tutti gli italiani che conosco e sono ancora lì sono passati ad altre cooperazioni, per questa e anche per altre regole.
Secondo te perché?
E’ come se invece di essere contenti di avere una persona che ha la capacità di lavorare in un certo contesto ne fossero infastiditi.
Una delle teorie è che, per esempio, se tu sei in Mozambico, magari ti mozambicizzi troppo, per cui fa ...[continua]

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