Luciano Pero è docente di Organizzazione per il Mip Politecnico di Milano. Si occupa di innovazione organizzativa, architetture di sistemi informativi, relazioni industriali e mercato del lavoro; Anna Ponzellini si occupa di organizzazione del lavoro, politiche del lavoro e del welfare. Qui di seguito, la versione integrale della relazione (completa del caso beta, di note e bibliografia), tenutasi il 18 ottobre a Roma, nell’ambito di un workshop organizzato da Aisri e Aiel (Sul caso beta, segnaliamo anche l’intervista comparsa sul n. 201, 2013).
PREMESSA
La via italiana al recupero di produttività tramite l’aumento della flessibilità esterna (lavoro precario), della saturazione dei tempi (tagli delle pause, aumento dei ritmi e dei carichi) e delle ore lavorate (straordinari) ha definitivamente mostrato la corda. La competitività del sistema manifatturiero italiano, soprattutto quello esportatore, può essere rilanciata soltanto con un deciso sforzo di innovazione nei sistemi organizzativi e gestionali delle imprese. Come indicano la letteratura economica e manageriale e le periodiche indagini della Commissione europea, nelle aziende dove sono state introdotte pratiche avanzate di gestione dei processi e delle persone - come il lavoro in squadra, la formazione, il coinvolgimento dei lavoratori nei processi di qualità, la flessibilità degli orari di lavoro e i sistemi premianti – sono stati realizzati incrementi estremamente significativi della produttività del lavoro, la riduzione dei costi operativi, la condivisione della conoscenza dei processi e della soluzione dei problemi (Leoni 2008 e 2013, Lynch 2004 e 2012, Campagna e Pero 2011, Eurofound 2012, Ponzellini 2013).
Tuttavia, percorrere questa strada per il nostro sistema industriale significa affrontare il problema di una riconversione delle relazioni industriali a livello d’impresa in direzione della partecipazione piuttosto che del conflitto, di un nuovo ruolo e nuove competenze per gli organismi di rappresentanza, di nuove regole per la contrattazione aziendale ispirate a un governo più flessibile delle relazioni di lavoro.
Ci proponiamo di dimostrare che il gioco vale la candela, esaminando alcuni casi interessanti di innovazione organizzativa condivisa tra management e sindacato, nei quali è stato possibile realizzare incrementi misurabili di performance ed insieme una migliore qualità della vita di lavoro e una maggiore partecipazione dei lavoratori. In particolare analizzeremo il caso di due stabilimenti di un gruppo metalmeccanico multinazionale dove sono state introdotte innovazioni simili in termini di flessibilità degli orari e di team work ma in contesti nazionali di relazioni di lavoro e di vincoli normativi contrattuali significativamente diversi. Esamineremo poi il caso di un’azienda della moda, dove notevoli miglioramenti della produttività e della qualità dei prodotti e dei processi sono stati ottenuti attraverso una filosofia delle relazioni di lavoro basata sul coinvolgimento delle RSU e dei lavoratori che prevede un percorso continuo di informazione, formazione, condivisione e negoziazione delle scelte organizzative. Seguirà il caso di un’azienda che ha introdotto un sistema molto strutturato di miglioramento della qualità basato su gruppi di miglioramento aperti a tutti i lavoratori, accompagnato da una tradizione di relazioni di lavoro e attenzione alle risorse umane molto avanzate. Infine, esamineremo il caso di un grande gruppo dove è stato dato il via ad un piano strategico di lean organisation e di innovazione dei processi in un contesto di relazioni industriali problematiche.
Anche sulla base di queste esperienze, proveremo a suggerire qualche cambiamento possibile per il nostro sistema di relazioni industriali (specialmente a livello di impresa), a partire dal potenziamento del ruolo e dalle competenze delle RSU e dalla ottimizzazione della normativa CCNL (e dei relativi rimandi alla contrattazione aziendale) su materie cruciali per la produttività, quali l’organizzazione del lavoro, gli orari e la conciliazione, la partecipazione dei lavoratori ai processi di qualità, i sistemi premianti e di welfare.
PRATICHE DI INNOVAZIONE, PARTECIPAZIONE ORGANIZZATIVA E RELAZIONI INDUSTRIALI
Pratiche d’innovazione organizzativa indirizzate al miglioramento della produttività e della qualità – le HPWP (High Performance Work Practices1) - si stanno diffondendo, sia pure lentamente, anche nel nostro sistema industriale, in genere in parallelo alla scelta dello snellimento delle strutture, dell’accorciamento della linea di comando e dell’introduzione di sistemi di qualità totale.
E’ noto che queste pratiche hanno un impatto positivo sulla performance delle imprese, anche se di grado maggiore o minore a seconda del mix implementato e comunque maggiore nel caso della contemporanea introduzione di un numero elevato di pratiche diverse (Leoni 201.). E’ meno noto – e forse anche più controverso – il rapporto che esiste tra queste pratiche e il sistema aziendale di relazioni di lavoro, in particolare la partecipazione del sindacato e il coinvolgimento dei lavoratori.
La nostra tesi è che l’innovazione e in generale le HPWP danno i migliori risultati se sono accompagnate da un grado elevato di partecipazione organizzativa, ovvero se i lavoratori non solo sono coinvolti attivamente nell’obbiettivo di cambiamento ma anche chiamati a cooperare alla realizzazione dei risultati attraverso qualche forma di delega organizzativa che realizzi una maggiore autonomia del lavoro e l’aumento della responsabilità degli operatori (quindi, necessariamente, anche delle loro competenze).
In questo paper ci soffermiamo in particolare su tre pratiche – il miglioramento continuo, la flessibilità degli orari e il lavoro in squadra – non sempre e non necessariamente applicate insieme. Di queste solo la flessibilità è generalmente un terreno di contrattazione (e spesso di conflitto). Le pratiche di miglioramento continuo sono piuttosto diffuse ma prevalentemente considerate ambito di prerogativa manageriale. Il lavoro in squadra stenta a diffondersi, almeno in Italia, e non è quasi mai oggetto di procedura formale (più o meno sindacalmente condivisa).
I CASI
1. "Il WCM e l’innovazione organizzativa e delle relazioni di lavoro sono l’unica via di sopravvivenza alla competizione globale”. I gruppi di miglioramento in ALFA.
Il caso ALFA colpisce per due ragioni. La prima è che quest’azienda ha ormai da alcuni anni al suo attivo alcuni dei premi più prestigiosi per la gestione delle risorse umane: per il quinto anno consecutivo, nel 2013, si è certificata "Top-Employer Italia” mantenendo la sua collocazione in un ristretto numero di aziende – tra cui Microsoft e Luxottica - che hanno raggiunto questo importante traguardo; inoltre per due anni (2011 e 2012) ha conquistato il primo posto in Italia, e nel 2011 addirittura il primo in Europa, come "Great place to work”. La seconda ragione è che, pur appartenendo a un comparto produttivo (quello degli elettrodomestici) e avendo i suoi principali impianti in un territorio (quello marchigiano) che stanno risentendo particolarmente della crisi, sta tuttavia registrando una buona tenuta dei mercati e discrete performance economiche che, tra l’altro, l’hanno portata a collocarsi nel segmento Star della Borsa italiana (dedicato alle medie imprese che assicurano requisiti di alta trasparenza, alta liquidità e una corporate governance di livello internazionale).
ALFA produce cappe da cucina destinate ai principali produttori mondiali di elettrodomestici, come Whirlpool, Bosch e General Electric. Ha circa 2700 dipendenti di cui la metà fuori Italia. Negli stabilimenti marchigiani sono concentrati poco meno di 1000 dipendenti: gli operai – principalmente donne – sono il 70% della forza lavoro, gli altri in gran parte sono tecnici e ingegneri della Ricerca e Sviluppo e impiegati addetti all’amministrazione, al marketing e al commerciale. Dal 2010 ha adottato il programma World Class Manufacturing (WCM),2 secondo il sistema messo a punto dal Gruppo Fiat ma con una interpretazione del programma che vede da un lato cruciali l’integrazione dei processi e la sincronia ("allineamento”) dei vari reparti, dall’altro il coinvolgimento attivo dei lavoratori. Tanto che, mentre nel sito più importante l’implementazione del sistema ha già coinvolto 7 linee di produzione (circa il 40% degli addetti industriali), sta partendo la partecipazione delle aree non industriali, comprese quelle della sede centrale. E’ molto significativo che questo sforzo di riorganizzazione sia stato intrapreso parallelamente ad una razionalizzazione degli impianti e delle risorse che ha anche comportato l’intervento di cassa integrazione.3
I suggerimenti dei lavoratori per il miglioramento del processo produttivo sono al centro del particolare schema di WCM applicato. In pratica, tutti i lavoratori sono invitati a dare suggerimenti o proporre progetti finalizzati a migliorare la produzione: le proposte possono essere inoltrate al responsabile interessato – non necessariamente il proprio capo diretto – tramite moduli forniti dalla direzione. Quando ne viene approvata l’implementazione, spetta al lavoratore, con l’eventuale assistenza del manager interessato, mettere insieme un gruppo che possa sperimentarla. Il gruppo di miglioramento può essere la stessa squadra addetta a quella particolare linea di produzione ma anche un gruppo misto trasversale alle linee o addirittura ai reparti e partecipato da addetti di tutti i ruoli che sono necessari per implementare l’innovazione (dagli operai addetti alla produzione, ai responsabili di linea, ai manutentori, agli addetti al magazzino, etc.), anzi la direzione incoraggia tutte le volte che è possibile i gruppi interdipartimentali. Ne deriva che i gruppi incaricati di sviluppare le idee di miglioramento – che possono variare da 4 a 15 componenti a seconda della dimensione dell’innovazione - sono spontanei e volontari (virtualmente tutti possono partecipare), sono poco strutturati (nel senso che vengono fatti ad hoc e poi disfatti), godono di ampia autonomia (nel decidere i vari passaggi per la messa in campo della innovazione, il numero delle riunioni, etc.), in genere non hanno un leader.
All’inizio, le reazioni all’introduzione del WCM e del sistema dei suggerimenti erano state piuttosto spaventate da parte del personale e tiepide da parte delle RSU, in parte per una naturale resistenza al cambiamento, in parte per una cultura - tipicamente la cultura operaia in Italia in generale –un po’ restia al coinvolgimento. A giudizio del management, la transizione verso una cultura partecipativa è stata la vera sfida di questo programma, visto che ALFA lo voleva centrato proprio su un cambiamento continuo proveniente dalla osservazione e dalla esperienza diretta dei lavoratori. A distanza di tre anni, si possono cominciare a trarre le prime riflessioni sull’esperienza. Per mettere a punto e testare l’intero schema dei suggerimenti – dal coinvolgimento sul singolo suggerimento a quello necessaria per raccogliere il feed back dell’innovazione - ci è voluto più di un anno e nel corso del tempo il programma si è arricchito di strumenti e ha avuto impatti diretti e indiretti molto articolati sia sulla produttività che sulle condizioni di lavoro e sulle relazioni di lavoro. Per esempio, nella prima fase erano i managers a sollecitare i suggerimenti e le proposte che arrivavano erano molte ma disordinate e superficiali, così si è deciso di fornire ai lavoratori manuali e tutto il corredo di informazioni necessarie a verificare la fattibilità delle proposte: attualmente il numero dei suggerimenti è calato ma la qualità delle proposte è migliorata tantissimo. L’autonomia e la competenza dei lavoratori nei suggerimenti è aumentata anche perché sono stati introdotti sulle linee coinvolte nel WCM schemi di job rotation che consentono ai lavoratori una più ampia comprensione di quello che fanno i loro colleghi di linea e di reparto. Per accrescere in quantità e qualità i suggerimenti e le iniziative di cambiamento sono poi state moltiplicate le opportunità formative per i dipendenti finalizzate ad aumentare la loro competenza tecnica e organizzativa ma anche a migliorare la fiducia in loro stessi e l’iniziativa: è significativo che la domanda di formazione relativa alle competenze manageriali (teamworking, comunicazione) sia aumentata rispetto alla più tradizionale domanda di formazione tecnica. Anche l’accesso all’intranet aziendale che ha un software dedicato a mappare le idee e i progetti in corso, a valutarli in base ad una serie di indicatori e raccogliere commenti e feed back, ha contribuito a migliorare la partecipazione e la capacità dei lavoratori di costruire proposte appropriate. Tant’è che, negli ultimi tempi si stanno moltiplicando iniziative autonome da parte dei singoli lavoratori che, prima di avanzare al manager il suggerimento, lo testano di propria iniziativa, talvolta coinvolgendo i colleghi di lavoro. L’azienda non frena questo processo, anzi lo segue con attenzione.
L’obiettivo aziendale di favorire il miglioramento continuo della produzione a partire dallo "sguardo” di chi lavora sembra avere di necessità coinvolto molti aspetti delle condizioni di lavoro e del rapporto di lavoro. Se lo scopo iniziale era reggere una concorrenza ormai globalizzata - e particolarmente feroce nel settore degli elettrodomestici - realizzando in modo più efficiente prodotti di migliore qualità, il programma introdotto ha rafforzato un sistema di relazioni di lavoro collaborative e di coinvolgimento dei lavoratori che da sempre informa tutta la vita aziendale: sono diffuse e puntuali le informazioni tecniche sui processi, i targets di produzione e gli andamenti dei mercati, sono periodicamente raccolti i feed-back sulle innovazioni e i risultati del processo di miglioramento sono misurati e diffusi attraverso periodiche presentazioni che danno conto di ciascuna proposta (e persino aprono la discussione e chiedono contributi sui suggerimenti che sono stati scartati). Il dialogo tra RSU e direzione del personale - riguarda sia l’avanzamento dell’implementazione del WCM, sia le prospettive dei mercati e dell’occupazione – è continuo.
Analogamente l’adozione del WCM e del sistema dei suggerimenti sta contribuendo a modificare la cultura organizzativa. La direzione ammette che la struttura aziendale è ancora piuttosto gerarchica ma l’esperienza dei gruppi di miglioramento sta "allenando i capi alla delega” e "sta abituando gli operatori all’autonomia, all’iniziativa, al networking, al lavoro di squadra”. La migliore conoscenza dei processi, dei ruoli, dei compiti dei colleghi che si è ottenuta attraverso l’esperienza dei gruppi misti e della job rotation ha avuto come risultato inatteso anche una maggiore simpatia verso i colleghi – sia quelli dello stesso reparto sia quelli dei reparti a monte e a valle - di cui ormai conoscono bene condizioni di lavoro e bisogni di cambiamento e quindi verso le proposte avanzate da loro.
Una ragione particolare di adesione dei lavoratori al nuovo metodo – ci è stato riferito che chi non è ancora coinvolto invidia molto i lavoratori già inseriti nel programma WCM – è dovuta al cambiamento delle condizioni di lavoro (postazioni di lavoro e ergonomia sulle linee sono fin dall’inizio molto migliorate) ma c’è anche la percezione della possibilità di cambiare ogni sezione del processo di produzione e quindi modificare le proprie condizioni di lavoro nel caso in cui siano insoddisfacenti: vi è una procedura specifica che stimola ad avanzare delle proposte di miglioramento oltre che dell’efficienza anche della salute e della sicurezza del lavoro in qualsiasi stadio dei processo Alcune delle innovazioni introdotte fin qui hanno avuto il risultato di eliminare i movimenti superflui e gli sforzi fisici non necessari e di ridurre i fattori di rischio di infortunio e lesioni. Uno degli impatti più eclatanti del programma è proprio costituito dal drastico abbattimento degli infortuni, che ormai tendono a zero. Ma è aumentato anche il confort di alcune posizioni di lavoro: in molte posizioni attualmente gli addetti lavorano seduti anziché in scomode posizioni in piedi.
Come si è detto, anche le relazioni industriali sono un aspetto positivo del caso ALFA, anche se non è del tutto chiara la relazione tra queste e l’esperienza dei gruppi di miglioramento. Circa il 25% dei dipendenti è iscritto al sindacato e il sindacato maggioritario è la Fiom CGIL. Nel 2008, alla vigilia dell’avvio del programma WCM, ALFA ha firmato con quattro sigle sindacali un accordo aziendale-quadro molto avanzato, i cui punti sono stati costruiti maturato attraverso un prolungato processo di discussione tra sindacato e lavoratori favorito dalla stessa azienda4.
In conclusione, i buoni risultati della pratica innovativa – in questo caso, i gruppi di miglioramento – sono dovuti a un coinvolgimento dei lavoratori che non è stato difficile in un’azienda caratterizzata da relazioni di lavoro tradizionalmente improntate alla fiducia tra le parti e all’assenza di conflitto sindacale. Ma il successo è stato indubbiamente favorito dalla contemporanea implementazione di altre pratiche manageriali contigue come il miglioramento dell’ambiente, del layout e dell’ergonomia la formazione dei lavoratori coinvolti, la sperimentazione di forme di job rotation, l’introduzione di pacchetti di welfare aziendale.
2. "Decidi tu quando puoi farti due ore di pausa, tanto lo sai quando deve andare via il pezzo”. Flessibilità produttiva e ruolo dei gruppi di lavoro a confronto in due stabilimenti - uno italiano e uno tedesco - del gruppo BETA.
Il caso BETA ci è stato segnalato in quanto nel 2011 nello stabilimento sito nell’hinterland milanese è stato firmato un accordo sulla flessibilità dell'orario che l'ha portato all'attenzione della Fiera della contrattazione aziendale che ogni anno viene organizzata dalla Cisl della Lombardia. L'accordo in questione amplia il numero di ore annue di flessibilità che possono essere richieste dall'azienda, in deroga alla norma del Ccnl, in questo modo adottando la stessa normativa di orario già prevista nello stabilimento tedesco dello stesso Gruppo. Il dibattito in corso tra economisti e tra studiosi di relazioni industriali sulla maggiore produttività' dell'economia tedesca (e in qualche misura anche sulla superiorità del sistema tedesco di relazioni industriali) e il nostro interesse al tema dell'organizzazione del lavoro ci hanno convinti a mettere a confronto i sistemi organizzativi e di relazioni di lavoro dei due stabilimenti, attraverso l'analisi dei rispettivi contratti e attraverso interviste ai rappresentanti dei lavoratori italiani e tedeschi.
Il gruppo multinazionale BETA si occupa di strumenti di misura, soluzioni e servizi per l'ingegneria industriale. Lo stabilimento di Milano, che attualmente occupa 160 dipendenti (una cinquantina di donne di cui solo 20 in produzione, una ventina di tecnici tra quelli che si occupano di sviluppo prodotti e quelli che seguono i progetti), è stato acquistato una quindicina di anni fa da una azienda tedesca. Qui vengono prodotti termometri industriali, di cui si realizzano la progettazione, la parte meccanica (tornitura e saldatura) e l'assemblaggio. La maggior parte della produzione è semi standard o pezzo singolo/piccolo lotto, quindi, nell’insieme il mix di competenze di questa unità produttiva è piuttosto elevato. L'azienda ha un limitato orizzonte temporale di pianificazione essendo impegnata con la clientela a consegnare gli ordini a 2/3 giorni. Nello stabilimento bavarese - 320 dipendenti, in maggioranza donne - la produzione è elettronica e quindi prevede un livello di competenze un po' meno elevato. Anche qui la produzione è just in time, con ordini da evadere anche appena a 24 ore: quindi la flessibilità è un'esigenza centrale e il rispetto dei tempi l'obiettivo gestionale più importante.
Nei suoi stabilimenti, BETA ha introdotto da anni un cambiamento organizzativo basato sulla lean organisation, sul kanban e sul miglioramento continuo che si è sviluppato per gradi successivi, interessando via via aspetti come l’ambiente di lavoro, il layout, la produttività, la sicurezza, gli sprechi, i team operai. Un sistema che ha prodotto notevoli incrementi di qualità e di produttività (tanto che, secondo il responsabile delle risorse umane, in Italia in soli due anni la produttività è aumentata come negli ultimi venti!). Il sistema è lo stesso nei due impianti ma ha raggiunto uno stadio più avanzato nello stabilimento tedesco e questo è il punto che a noi interessava analizzare.
L'organizzazione dei due stabilimenti ha come punto centrale la flessibilità produttiva, in ragione di prodotti che vengono rilasciati a scadenze molto brevi (da 24 a 72 ore) e che obbligano ad una programmazione settimanale (a volte anche più breve). La contrattazione dell'orario di lavoro riveste dunque un ruolo fondamentale. Nel 1997, nello stabilimento tedesco tra la direzione e il consiglio dei lavoratori è stato firmato un contratto aziendale sull'orario di lavoro, in deroga al contratto collettivo di settore, che stabilisce che, anche se la media oraria giornaliera in un semestre non dovrà superare le 8 ore, l'orario giornaliero potrà variare tra 4 e 10 ore, in base a un sistema di conto-ore che consente di lavorare fino a 50 ore in più o in meno del proprio orario di lavoro all’interno di quel periodo. Questa flessibilità è stata voluta dall'azienda per tener dietro ai picchi e flessi produttivi dell'azienda (tra il 2009 e il 2011, in un momento di particolare calo produttivo, il limite inferiore era stato portato a -65 ore) ma serve anche ai dipendenti per eventuali esigenze personali. In pratica, se ci sono ordini da evadere si aumentano le ore in modo da rispettare i tempi di consegna oppure, in caso di calo produttivo, il responsabile del team può anche congedare uno o più lavoratori a una certa ora della giornata (o preavvisarli di non venire a lavorare), purché siano in linea col conto ore. Lo stesso vale per i bisogni dei lavoratori: in caso di esigenze personali, un dipendente può chiedere in qualsiasi momento di utilizzare la sua flessibilità (fino a due giorni la settimana). Nello stabilimento italiano questo tipo di flessibilità è stata introdotta con un accordo aziendale firmato nel 2011, che ha stabilito la possibilità di aumentare le ore di flessibilità previste dal CCNL da 64 a 965. L’accordo è stato piuttosto contrastato ma alla fine è stato accettato in cambio di un consistente aumento delle maggiorazioni, di un premio di produttività aggiuntivo rispetto al Premio di Risultato, di un parziale consolidamento del premio, dell’aumento del ticket mensa.
Come si può notare, la flessibilità produttiva raggiunta è ora simile nei due stabilimenti ma il sistema normativo sottostante mantiene differenze molto importanti. Innanzitutto, gli incentivi appaiono molto diversi nei due casi: nel caso tedesco la flessibilità dell’orario (in su e in giù) non è pagata e l’incentivo per i lavoratori è in termini di tempo da gestirsi per le proprie esigenze personali (inoltre, un disincentivo a lavorare più ore è radicato nella modalità di progressione delle aliquote fiscali), nel sistema italiano invece la flessibilità è pagata (sia con le maggiorazioni già previste dal CCNL sia con le maggiorazioni aggiuntive previste dall’accordo aziendale) ma congegnata in modo da "dimenticare” le esigenze personali dei lavoratori, che a differenza che nel caso tedesco possono esigerla solo come recupero6, e solo per una quota delle ore lavorate in più.
Il confronto è ancora più stridente se guardiamo al ruolo che hanno i gruppi di lavoro. Va detto che lo stabilimento tedesco ha un accordo sui team già da quindici anni mentre nell’azienda italiana ne è stato firmato uno simile solo due anni fa. Nell’impianto tedesco, è il team leader che, in base agli obiettivi produttivi della settimana, sente la squadra e decide come organizzare la produzione, quante ore lavorare nelle varie giornate, se spalmare le ore in più o in meno in ciascuna giornata o concentrarle in un solo giorno, se lavorare durante il week end, etc. anche in relazione ad eventuali richieste di assenza dei lavoratori per bisogni personali. Nel caso italiano, nonostante l’accordo firmato, il governo della flessibilità è ancora nelle mani della pianificazione e dei responsabili di reparto. Da un lato, i lavoratori sembrerebbero riluttanti ad assumersi la responsabilità del raggiungimento dei target di produzione e dell’organizzazione della flessibilità (quella positiva forse, del prestarsi a fare qualche ora in più quando necessario ma certamente non quella negativa del decidere se rallentare la produzione e mandare la gente a casa e, comunque non sicuramente nella gestione dei permessi dei colleghi della squadra). Dall’altro, forse anche per un minore investimento in sviluppo del management italiano, il funzionamento del team e la preparazione dei team leader non appaiono ancora sufficientemente maturi perché il team possa farsi carico in autonomia di tutti questi compiti. Le squadre operaie tedesche hanno insomma una responsabilità maggiore ma anche una autonomia molto ampia e quindi una maggiore motivazione a tener dietro agli obiettivi produttivi: l’home delivery time è qui rispettato al 97-98%, mentre nello stabilimento italiano solo all’89% (un valore ancora del tutto insufficiente benché considerevolmente aumentato negli ultimi dieci anni). D’altra parte, mentre il delivery time è l’obiettivo fondamentale nell’unità tedesca, il management italiano preferisce puntare sugli obiettivi di fatturato e questo in qualche modo sacrifica il ruolo del team e della gestione della flessibilità.
Quale il rapporto con le relazioni industriali? Il rappresentante dei lavoratori tedesco sostiene che la diversità tra le due situazioni è dovuta soprattutto al fatto che nel loro stabilimento le relazioni di lavoro sono basate da sempre sulla fiducia e sulla delega e quindi i lavoratori sono più disponibili a farsi carico delle decisioni secondo un processo alimentato dal basso (e poi la flessibilità dell’orario fa piacere a entrambe le parti). Le RSU dello stabilimento italiano considerano la situazione tedesca un obiettivo da raggiungere ma considerano tra le loro difficoltà il fatto di avere un mix di competenze di qualità mediamente più elevata che rende molte posizioni insostituibili, anche visto che il management non investe in addestramento e questo rende la flessibilità più complicata. D’altra parte, la propensione a giudicare la flessibilità una "fregatura” è connaturata nell’esperienza delle relazioni industriali italiane e anche questi lavoratori – pochi dei quali, tra l’altro, sono iscritti al sindacato7 - considerano il cambiamento d’orario innanzitutto un sacrificio, e poi un sacrificio che va remunerato, a maggior ragione dato che i salari italiani sono più bassi.
Come si vede, in questo caso l’innovazione è stata avviata attraverso il kanban e i gruppi di miglioramento – che funzionano anche se in modo differente in entrambi gli stabilimenti – ma il fattore critico di successo per la performance aziendale si è presto spostato sulla flessibilità. Le regole della flessibilità sono attualmente simili nei due stabilimenti ma è diverso il grado di autonomia dei team e la responsabilizzazione dei lavoratori: probabilmente è questa la ragione dei risultati inferiori dello stabilimento italiano rispetto agli obiettivi di delivery (e in qualche misura forse anche della minore soddisfazione dei lavoratori).
3. L’innovazione di processo e di prodotto nel caso GAMMA: una azienda di moda nella competizione globale che segue un percorso di formazione e condivisione continua con le RSU e i lavoratori per adeguarsi al mercato globale.
Il caso GAMMA è molto interessante perché riguarda una tipica azienda del sistema moda specializzata in oggetti di complemento dell’abbigliamento personale tipici del Made in Italy, che si è adattata con successo al nuovo mercato mondiale.
L’azienda Gamma era già un’azienda di successo negli anni ’90, ma essa è riuscita non solo ad adattarsi alla globalizzazione dopo il 2000, riconfermando le proprie posizioni di leadership nel settore, ma si è trasformata in una vera multinazionale globale di tipo nuovo.
Essa è riuscita, con rapidi cambiamenti, sia a inserirsi nei nuovi mercati dei paesi emergenti, in Asia, Oceania, Sud America, sia a mantenere i mercati dei paesi sviluppati (Europa e Nord America soprattutto) con una profonda innovazione di prodotto, con allargamento dei marchi, con un elevato ampliamento della gamma offerta sia ai mercati emergenti sia a quelli tradizionali.
Questa profonda trasformazione, che ha riconvertito una azienda "artigianale” situata nei distretti paesani del "Made in Italy” in una multinazionale globale di tipo nuovo, è avvenuta rapidamente nel decennio scorso, anche con la conservazione di molte caratteristiche strutturali e di immagine del "Made in Italy”. Ad esempio c’è una forte continuità del design italiano delle soluzioni tecnologiche e dei materiali, di alcune lavorazioni manuali con impronta artigianale, della fedeltà e attaccamento dei lavoratori all’azienda, del rapporto con il territorio di origine.
I risultati raggiunti, se osservati dal punto di vista del "business”, sono eccezionali: il fatturato è più che raddoppiato in dieci anni, le quote di mercato sono accresciute o mantenute, i margini sono aumentati e comunque sono sempre elevati, la gamma enormemente ampliata, le catene di vendita di proprietà espanse in nuovi paesi.
Questa rapida e profonda trasformazione è stata realizzata in un quadro di relazioni industriali da sempre più orientato alla cooperazione invece che al conflitto; e tuttavia negli ultimi anni le R.I. si sono evolute verso un modello dove la partecipazione organizzativa, soprattutto delle RSU ma anche dei sindacati esterni, è stato ancora di più rafforzata e arricchita di nuove regole e nuovi istituti aziendali. Tuttavia la formalizzazione è rimasta scarsa.
Prima però di descrivere il modello di Relazioni Industriali, sembra opportuno accennare alle profonde e rapide trasformazioni del sistema produttivo del caso GAMMA, e alle rilevanti modifiche delle fabbriche che sono state necessarie per trasformare alcuni poli produttivi di un distretto locale italiano in un network manifatturiero di una multinazionale globale.
In primo luogo l’aumento rilevante dei volumi e dei pezzi prodotti (che è più che raddoppiato in dieci anni) è stato realizzato completamente in fabbriche di proprietà, dal momento che la gestione tradizionale non aveva mai ceduto alle sirene dell’outsourcing e che anche la gestione attuale ha confermato la scelta di fondo di mantenere in aziende di proprietà non solo il marketing e la progettazione, ma l’intero ciclo produttivo, compresi i componenti più importanti. Si opera sempre con la regola del "tutto fatto in casa”. Il raddoppio dei volumi prodotti è stato quindi ottenuto da un lato con nuove fabbriche in Cina e America (sia Nord America che Sud America) e dall’altro con una forte pressione sulle fabbriche italiane per produrre di più, all’interno di una sostanziale stabilità di organico. Le ricette di terziarizzazione quasi completa del sistema di produzione tipiche dell’abbigliamento (come ad esempio Benetton o le "grandi firme”) non sono quindi state adottate, e il network produttivo di GAMMA è quindi molto più simile a quello di ZARA che a quello di Giorgio Armani, da cui è in effetti molto distante.
In secondo luogo, oltre all’aumento dei volumi, le fabbriche sono state sottoposte a esigenze pressanti (e anche stressanti) di modifica delle tradizioni produttive, che ovviamente hanno origine e causa nel nuovo mercato globale e nei nuovi sistemi di marketing.
In somma sintesi: lo "stress” sulle fabbriche nasce da alcuni nuovi modi di vendere e distribuire sul mercato mondiale, che sono profondamente diversi dai modi di produrre degli anni ’80 e ’90, ma che sono anche alla base del recente successo di GAMMA.
Questi nuovi modi sono sintetizzabili nei seguenti punti :
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l’elevato ampliamento di gamma (più che triplicata) e la più rapida obsolescenza dei modelli (e dei colori) che hanno oggi una vita molto più "effimera” che in passato;
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la minore stabilità delle classiche collezioni annuali, e la comparsa di produzione ad hoc per singoli eventi di moda, che nascono e muoiono in pochi giorni;
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la diffusione del sistema di ordini just in time di pochi pezzi da parte dei negozi e delle catene di vendita, insieme alla riduzione dei lotti e dei magazzini di prodotti finiti.
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il lancio di vendite su Internet per pezzi personalizzati.
Tutti questi fenomeni hanno richiesto un profondo cambiamento dei modi di produzione nelle fabbriche, che tuttavia devono conservare alcuni tratti dell’originaria impronta della alta qualità artigianale per mantenere le caratteristiche del "Made in Italy”, ingrediente base del successo dell’export.
In sostanza questa elevata esigenza di rapida trasformazione del flusso produttivo e dei modi di produzione è stata tradotta dal management in numerosi filoni e progetti di innovazione di prodotto (che qui non trattiamo) e di processo. Questi ultimi sono riassumibili in tre filoni:
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una flessibilizzazione elevata del sistema di produzione che richiede sia un ricorso sempre più frequente agli istituti di flessibilità del CCNL (flessibilità positiva, negativa e straordinario incentivato) sia la variazione frequente dei turni di lavoro, sia lo spostamento di lavoratori tra i diversi siti produttivi, sia la modifica del layout delle officine e delle macchine. In pratica le fabbriche sono in continuo cambiamento.
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Una intensificazione delle tecniche di controllo qualità e di prevenzione dei difetti e degli sprechi, anche con ricorso a nuove forme di premi collettivi di qualità e di campagne di sensibilizzazione sulla qualità rivolte agli operai.
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Una rapida diffusione dei sistemi di lean-production. Tuttavia in questo caso la lean, come è ovvio in una produzione di moda, non può essere applicata come il WCM nell’ambiente "Automotive”, ma deve essere "leggera” e facilmente modificabile, oltre che rispettosa dei sistemi di manipolazione artigianale.
Questa notevole mole di cambiamento, (che è allo stesso tempo concentrato e accelerato) è stata gestita dagli attori (management e sindacati) in un ambiente orientato alla convergenza che già per tradizione era incline a relazioni industriali di tipo cooperativo. Tuttavia, osservando un decennio di relazioni industriali mi sembra che si possa affermare che man mano che l’esigenza di cambiamento si è intensificata, anche la cooperazione tra gli attori è stata anch’essa intensificata e sviluppata ampiamente, sino ad accentuarsi negli ultimi anni.
L’accentuazione tuttavia di relazioni industriali innovative e cooperative non ha ancora prodotto un vero e proprio modello partecipativo formalizzato. Al contrario gli attori sembrano insistere su pratiche di fatto e prassi di elevato coinvolgimento e di sistemica consultazione reciproca, ma si fermano prima di arrivare a formalizzazioni di istituti e di accordi che potrebbero "stonare” nel contesto italiano, che come è noto risulta caratterizzato da litigiosità, localismo ed elevata frammentazione.
Si sono così sviluppate pratiche diffuse in tutti i poli produttivi di sistematica e precisa informazione a tutti i dipendenti dei progetti innovativi in corso, e di approfondita formazione sui nuovi metodi di produttività alle RSU e ai lavoratori coinvolti nei progetti di innovazione. L’azienda ha elaborato un modello sistemico con tre "gradini” successivi con i quali si propone di coinvolgere tutte le persone nei processi innovativi. In breve si prevede una sorta di progressione nel coinvolgimento dei lavoratori man mano che le innovazioni vengono applicate nelle fabbriche, passando per interventi successivi che si focalizzano su:
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informazione sistemica e frequente a tutti i lavoratori
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formazione mirata ai lavoratori coinvolti, ai tecnici e alle RSU
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Coinvolgimento diretto dei team di miglioramento e dei team – operai.
Tutte queste pratiche e le iniziative di formazione e coinvolgimento sono comunicate e condivise con i sindacati e sono diventate uno "stile” con cui si gestisce l’innovazione e un ingrediente essenziale per il successo del cambiamento.
Tuttavia oltre alle "prassi”, sono stati stabiliti in diversi accordi e contratti integrativi Aziendali nuovi istituti e nuove regole di conduzione e concertazione che possono essere considerate una sorta di "quasi modello” di una partecipazione aziendale a "bassa formalizzazione”. In primo luogo sono state definite varie Commissioni bilaterali (tra cui centrale è la Commissione Organizzazione del lavoro) e regole di informazione e comunicazione che consentono e regolano la condivisione dei progetti innovativi e soprattutto la gestione della flessibilità degli orari e della mobilità interna.
In secondo luogo sono state formalizzate nel contratto aziendale un insieme di micro-regole per la gestione di aspetti non secondari della partecipazione dei lavoratori, quali ad esempio il part-time (entrata e uscita), le ferie, i permessi e le chiusure annuali, il job-sharing, la riorganizzazione dei lay-out dei reparti, le informazioni delle RSU etc.
In terzo luogo, è stato definito un articolato sistema di welfare aziendale, con un accordo ad hoc, che viene gestito attraverso una Commissione Bilaterale Azienda-Sindacati, nella quale viene regolato lo scambio fondamentale tra performance complessive di qualità delle fabbriche e servizi di welfare erogati.
In conclusione nel caso GAMMA, si può osservare come un ambiente manifatturiero che ha necessità di accelerare e di intensificare l’innovazione tecnico-organizzativa per avere successo nei nuovi mercati globali, abbia accentuato e approfondito un proprio modello di partecipazione aziendale, centrato sul coinvolgimento diffuso dei lavoratori e delle RSU nella partecipazione diretta ed organizzativa nelle fabbriche e nelle linee di lavoro. Molta minore enfasi è stata data invece sugli accordi di lungo periodo e sulla partecipazione strategica 8. In una zona intermedia può essere collocato il sistema di gestione paritaria Azienda-Sindacato del Welfare Aziendale.
4. Il caso Delta. Il WCM in una azienda di componentistica del ciclo automotive: la scarsa partecipazione dei lavoratori rende difficile gli obiettivi attesi di produttività.
Il caso DELTA è interessante come possibile contro esempio in relazione all’ipotesi avanzata nei paragrafi precedenti: che cioè la crescita delle performance di produttività aziendale, soprattutto se collegata a progetti di innovazione organizzativa e di processo, sia potenziata e facilitata dalla partecipazione diretta dei lavoratori ai progetti di innovazione. Di conseguenza l’ipotesi è che nell’attuale situazione economica, l’esistenza di pratiche e di modelli di Relazioni Industriali più cooperative a livello aziendale, tendano a favorire il raggiungimento pieno dei risultati attesi dai progetti innovativi.
Il caso DELTA può essere un contro esempio dal momento che presenta due fattori contemporanei. Da un lato in quel contesto non vengono attivati né accordi sindacali di impianto cooperativo né pratiche di coinvolgimento dei lavoratori e delle RSU. Dall’altro contemporaneamente l’applicazione di metodologie di miglioramento come il WCM non riesce a raggiungere i risultati attesi.
DELTA è una azienda di dimensioni medio-piccole, dotata però di strutture e staff tecnici, che sono in grado di gestire efficacemente tecnologie relativamente aggiornate per la produzione di componenti complessi per l’industria automobilistica. DELTA ha una sua propria struttura tecnica con capacità progettuale e di controllo qualità, e un proprio sistema produttivo governato da un tipico sistema gerarchico di capi intermedi (middle management) dedicato alla gestione delle linee e del flusso produttivo. DELTA lavora da sempre nelle catene di sub-fornitura della componentistica. L’idea di applicare tecniche e metodi ricavati dai sistemi e dagli approcci Lean era presente da tempo in fabbrica e molti esperimenti di programmazione a "Kan ban” e di montaggio in isole erano stati condotti sin dalla fine degli anni ’90 da diversi Direttori di Produzione. L’approccio Lean era tuttavia abbastanza distante dalla cultura di fabbrica e gli esperimenti condotti dagli ingegneri più giovani erano stati non sempre felici e di solito considerati con sufficienza dai leader di fabbrica tradizionali. Negli anni recenti tuttavia la pressione dei committenti (i grandi costruttori di auto) in direzione di standard di qualità più elevata, di consegne molto puntuali, di un sistema di ordini just in time, e infine di una forte pressione sulla riduzione dei costi, avevano indotto la Direzione aziendale a decidere l’adozione del metodo WCM.
Le attese della Direzione erano che l’applicazione sistematica di alcune delle metodologie del WCM (in particolare quelle per la qualità, l’organizzazione del posto di lavoro e la manutenzione delle macchine) avrebbero consentito non solo di rispondere alle richieste di qualità e tempestività del Committente, ma avrebbero anche portato notevoli riduzioni di costi e sprechi e aumento della produttività. L’introduzione di alcune metodologie WCM, tuttavia, era avvenuta non solo adottando direttamente i metodi elaborati dal Committente, senza alcun adattamento o revisione, ma anche attraverso un approccio dall’alto verso il basso, di tipo top-down. Questo approccio aveva non solo ridotto il numero delle persone coinvolte ad un numero minimo indispensabile, ma aveva anche fatto sì che la discussione nei gruppi di lavoro fosse molto limitata, che il passaggio di conoscenze fosse "al ribasso”, che ci fosse molta confusione su che cosa si doveva fare, su quali erano gli obiettivi e le motivazioni. In breve l’approccio top-down non solo non era riuscito a cambiare la sostanza della cultura organizzativa della fabbrica, ma aveva finito per produrre molti piccoli insuccessi nelle prime applicazioni, i quali a loro volta avevano contribuito a diffondere scetticismo, sarcasmo e talora critiche esplicite ai nuovi metodi. Le RSU e i Sindacati non sono stati per nulla coinvolti nei progetti innovativi: molti lavoratori e molte RSU non sapevano neanche di che cosa si tratta. Ben presto lo scetticismo, diffuso dai capi intermedi, veniva trasmesso ai lavoratori, con l’esito di rafforzare la cultura tradizionale. A quel punto le innovazioni erano state portate avanti ugualmente, vista la decisione forte della Direzione, ma i risultati attesi sulle performance tardavano a comparire. Qualche miglioramento è stato registrato prevalentemente sulla qualità, soprattutto a seguito di tante piccole modifiche ai materiali, agli utensili, agli attrezzi e alle macchine che riducono i malfunzionamenti. Ma modesti sono i risultati sulla produttività e sui tempi di consegna. Secondo alcuni la scarsità nel miglioramento rispetto agli obiettivi attesi non è tanto riferibile alla ostilità verso l’innovazione delle RSU e dei Sindacati (che tra l’altro non si è neanche manifestata apertamente) quanto piuttosto alla contrarietà dei capi. La questione può ovviamente essere discussa, data la molteplicità delle variabili in gioco. In casi come questo si dovrebbe analizzare se abbia maggiore rilevanza la resistenza dei capi intermedi oppure il disinteresse e la scarsa partecipazione dei lavoratori.
In sintesi resta accertato che quando l’innovazione è calata dall’alto e non è attivato un coinvolgimento e una partecipazione diretta dei lavoratori, la cultura organizzativa tradizionale riesce a resistere efficacemente contro le innovazioni, forse a causa delle vischiosità diffuse in tutti i settori, o forse per il ruolo più conservativo della gerarchia, o forse anche per lo scarso coinvolgimento dei lavoratori.
CONCLUSIONI
I gruppi di miglioramento – che abbiamo osservato in Alfa, in Delta e in Gamma (ma che esistono anche in Beta) - sono uno strumento organizzativo molto importante e relativamente facile da implementare perché i lavoratori sono molto contenti di essere interpellati (e anche di poter influire almeno in parte sulle loro condizioni di lavoro, sull’ambiente, sull’ergonomia, etc.) e il sindacato non si oppone.
Nelle situazioni più virtuose – o semplicemente più mature – i gruppi di miglioramento aprono la strada ai team di lavoro: la situazione più avanzata l’abbiamo osservata nello stabilimento tedesco di Beta, dove i team gestiscono in autonomia la flessibilità produttiva e anche alcuni aspetti della gestione delle persone (permessi, job rotation, addestramento). Un punto critico del team operaio è il ruolo del team leader, diverso in ogni esperienza – a volte più simile ad una figura della gerarchia, in rari casi in Italia suggerito dai lavoratori, a volte è una figura solo occasionale legata alla gestione di un singolo progetto – che potrebbe essere anche in competizione col ruolo del RSU. Il passaggio ai team di lavoro prevede un investimento da parte del management nell’addestramento alla polivalenza come prerequisito per una migliore flessibilità del lavoro, una strategia manageriale basata sul serio sulla delega, la disponibilità dei lavoratori a scambiare più autonomia con più responsabilità, una attitudine del sindacato a favorire questo cambiamento: tutte condizioni che vanno costruite e negoziate con cura. Di conseguenza in Italia – e anche nei nostri casi – il team operaio è ancora un struttura in fieri, debole e certamente molto informale. Anche la frequente opposizione del middle management, che vede minacciato il proprio ruolo gerarchico, gioca a sfavore della diffusione dei team operai che, secondo la letteratura, sono invece ingrediente essenziale della produttività.
La flessibilità produttiva è la posta in gioco più complessa di tutta la strategia di innovazione. Adattarsi ad orari diversi significa uscire da routines rassicuranti, viene visto comunque come un sacrificio, tende – almeno in Italia – ad essere sottovalutato il potenziale di scambio esigenze aziendali/esigenze personali. Indubbiamente comunque non tutte le RSU sono d’accordo nel cogliere l’importanza della flessibilità per la competitività dell’azienda né nel valorizzarne le opportunità di miglioramento della qualità della vita. Di questa carenza culturale a nuove forme di flessibilità finiscono per soffrire sia impresa che lavoratori che si trovano a gestire orari molti più rigidi di quelli che potrebbero essere.
I casi analizzati danno comunque l’idea che se per alcune imprese l’innovazione va sperimentata anche come condizione indispensabile per affrontare la competizione globale, non è chiara per il sindacato l’opportunità che queste innovazioni offrono di sviluppare anche le relazioni industriali in direzione di una maggiore partecipazione sia del sindacato che dei lavoratori. Non solo, nei casi analizzati risulta che i gruppi di miglioramento e lo stesso lavoro in squadra sono benvoluti dai lavoratori che si sentono valorizzati e possono migliorare le proprie skills. Tuttavia il sindacato appare più cauto e forse timoroso di perdere il proprio ruolo all’interno dei reparti.
Più in generale, dai casi sembra confermata che le esperienze più innovative di relazioni industriali a livello di impresa nel nostro paese soffrono di una incapacità di formalizzare le pratiche su cui si basano e di esplicitare i loro assunti (persino un certo timore di farsi troppo conoscere all’esterno).
Infine, non c’è dubbio che l’intera normativa sugli orari di lavoro stia scoppiando: non risponde ai nuovi tempi di produzione, né ai nuovi tempi di vita (nelle aziende di servizi ancora di meno). Per molti aspetti, assomiglia più ad un capitolo del salario che ad un capitolo sull’organizzazione del lavoro.
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1Secondo la definizione della fondazione europea di Dublino (Eurofound) le High Performance Workplace Practices sono "pratiche di innovazione che includono lean management, lavoro in squadra, flessibilità degli orari, riprogettazione dell’organizzazione delle mansioni e coinvolgimento dei lavoratori” (Eurofound 2013).
2Com’è noto questo programma, derivato dalle intuizioni giapponesi della lean production e del miglioramento continuo - integra una serie di consolidate metodologie (dal Total Quality Control, al Just in Time, al Cost Deployment), con l’obiettivo di migliorare la produttività aumentando l’efficienza dei processi e la qualità dei prodotti e eliminando gli sprechi. Un passaggio importante del programma è il coinvolgimento e l’auto-attivazione dei lavoratori nel processo di soluzione e prevenzione dei problemi.
3L’azienda ha reagito alla forte competizione del mercato dell’elettrodomestico con una attenta razionalizzazione degli impianti e delle risorse e con un uso equilibrato degli ammortizzatori sociali: il programma ha comportato la chiusura di un impianto, quattro anni cassa integrazione ripartita su tutti i lavoratori (tutti lavorano 6 ore al giorno e integrano due ore con la cassa), mobilità incentivata per un centinaio di persone tra due stabilimento di uno stesso comprensorio.
4L’accordo, oltre a stabilire i criteri per il premio di risultato e procedure di tutela per la gestione di eventuali esuberi, contempla una serie molta ampia di benefits aggiuntivi per il personale nell’area del cosiddetto welfare aziendale (acquisto agevolato prodotti, wedding bonus, bonus per il primo figlio) e della conciliazione tra lavoro e vita (part time, orario elastico, turni alternati per i genitori, congedi di paternità, ferie accorpate e prolungate per gli stranieri, permessi per alcolisti e tossicodipendenti, prolungamento congedo di maternità, permessi aggiuntivi per le madri etc.).
5A differenza di quello tedesco, il Ccnl italiano di settore prevede che per la flessibilità "positiva” (in più) vi sia una maggiorazione salariale. Inoltre prevede che la flessibilità "negativa” (che poi sarebbe quella che il lavoratore recupera!) sia solo parziale e soprattutto non immediatamente esigibile dal lavoratore.
6Nell’accordo si specifica esplicitamente che "la flessibilità negativa non può sostituire l’uso delle ferie o dei Par”.
7Nell’insieme le tre single sindacali non raggiungono il 10%. Il sindacato maggioritario è la Fiom, c’è un buon accordo tra le sigle e buoni rapporti con la controparte aziendale (anche perché il management italiano tende ad "accontentare” le richieste sindacali perché la casa madre tedesca tende ad evitare ogni conflittualità).
8I termini "partecipazione operativa organizzativa e strategica” sono qui usati secondo la definizione di Guido Baglioni.