Il 27 febbraio, a Bologna, si è tenuto il seminario "Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi? Democrazia e limiti della libertà di espressione”, organizzato dal Dipartimento di Scienze giuridiche e dal Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. Il seminario ha inteso riflettere sul tema dei limiti, nelle società democratiche alla libera manifestazione del pensiero, dopo i fatti di Parigi del 7 e 9 gennaio 2015. Pubblichiamo gli interventi di Gaetano Insolera, Carlo Guarnieri, Alessandro Gamberini ed Emanuela Fronza.

Gaetano Insolera
Il tema del seminario: possono o debbono essere posti dei confini, e quali, a uno dei principi, diremmo universali, della liberal-democrazia, al principio di libera manifestazione del pensiero?
La questione chiama in causa, da un lato,  la legittimità di una limitazione alla manifestazione del pensiero e le sue motivazioni e quindi la definizione della natura stessa di questo diritto, se assoluta o comprimibile (ed entro quali margini). Dall’altra parte, abbiamo le tecniche di tutela rispetto a quelli che possono qualificarsi come abusi di questo diritto; pensiamo al tema del negazionismo. Più in generale mi sembra che su questo argomento occorra rivedere alcune categorie, anche alla luce delle trasformazioni avvenute nell’informazione e nel modo in cui essa viene confezionata e diffusa.

Carlo Guarnieri
Da parte mia cercherò di dare alcune indicazioni di contesto più che entrare nel merito. Innanzitutto, qui ci troviamo in una situazione in cui vanno bilanciate esigenze diverse: da una parte quelle di libertà di espressione e dall’altra quelle di pubblica tranquillità. Vanno temperati questi due valori e, come in tutte le operazioni di bilanciamento, parliamo di un’operazione evidentemente politica: si tratta di trovare un compromesso accettabile.
Se vogliamo, abbiamo da un lato l’esigenza da parte di gruppi o individui di enfatizzare il proprio messaggio per ottenere l’attenzione, per dargli una dimensione più drammatica, e dall’altro la preoccupazione di chi invece vede i propri valori messi a repentaglio, offesi. Naturalmente il problema è che nessuno di questi due attori può avere il monopolio della definizione di cosa sia concretamente da perseguire o meno.
Aggiungo anche che noi siamo ancora sotto l’influenza, lo shock di quanto accaduto a Parigi, ma se guardate bene quello che è accaduto ha poco a che vedere con la libertà di manifestazione del pensiero. Oltre alla redazione di "Charlie Hebdo” sono stati infatti coinvolti un poliziotto di origine nordafricana che passava di lì per caso e alcune persone di religione ebraica che facevano la spesa in un supermercato kosher. È pertanto evidente la strumentalità dell’invocazione al rispetto di certi valori religiosi. Detto questo, bisogna ricordare che anche nelle democrazie, nei regimi costituzionali consolidati, esistono limitazioni al diritto di esprimere il proprio pensiero, addirittura c’è una lunga tradizione dei reati di blasfemia o bestemmia.
L’altro giorno mi sono imbattuto nel pezzo di un famosissimo giurista inglese del Settecento, William Blackstone, che a questo proposito introduce una distinzione che ho trovato interessante. Parlando del reato di diffamazione, Blackstone sostiene che ci sono limiti alla libertà di espressione: quando si offende la religione, il governo, le fondazioni storiche della libertà civile. Ma, attenzione, aggiunge: è vietato non tanto sviluppare idee che possono essere considerate pericolose, bensì la loro disseminazione, cioè il fatto di rendere pubblici sentimenti cattivi, distruttivi dei fondamenti della società. Questo è il vero crimine. Per meglio spiegare il concetto si affida a una metafora. Un uomo può benissimo tenere del veleno nel suo armadio, ma non lo può vendere come fosse un buon liquore. Cosa sta dicendo? Che si possono introdurre dei limiti, ma che questi limiti vanno riferiti alla disseminazione, la quale può intaccare la tranquillità pubblica. Dico questo perché oggi si parla invece di rendere reato anche la semplice detenzione o consultazione di materiale "proibito”.
Dal punto di vista politico, la questione dei reati, nonché dei limiti alla manifestazione del pensiero, va collegata strettamente a un altro tema, cioè al grado di divaricazione dei valori e degli atteggiamenti presenti in una certa comunità. Se questa divaricazione supera un certo grado e diventa polarizzazione, c’è un problema, punto. Quindi, il nodo è identificare il grado di polarizzazione che un sistema politico può tollerare senza entrare in sofferenza. In altre parole, è praticabile un pluralismo radicale, inteso come convivenza di atteggiamenti e valori radicalmente diversi, e fino a che punto?
Questo tema si inserisce nella discussione sul multiculturalismo. Noi ce ne siamo dimenticati, ma in Europa abbiamo avuto delle guerre di religione. E come sono state risolte? Prima col famoso principio, eius regio, cuius religio, cioè semplicemente ci siamo spartiti l’Europa stabilendo che la religione del sovrano era quella dei sudditi e se questi non la gradivano, prendevano armi e bagagli e se ne andavano altrove. Questo nel Seicento e Settecento. Nell’Ottocento il problema è stato risolto, in alcuni casi brillantemente, attraverso il meccanismo della compartimentazione della società. Olanda e Svizzera, per esempio, hanno suddiviso la società nei comparti protestante e cattolico, francofono e fiammingo e così via. Dentro ai comparti si praticava una sola religione o una sola lingua. Eventualmente il cittadino si spostava da un comparto all’altro. Questo sistema ha funzionato abbastanza bene, ma perché ci trovavamo di fronte a una società poco mobile.
Fino alla metà del Novecento i mezzi di comunicazione avevano una capacità di mobilitazione molto ridotta. Questo permetteva alle élite delle varie comunità di trovare un accordo tra di loro e allo stesso tempo di mantenere senza grandi difficoltà la loro influenza all’interno del proprio segmento.
Oggi è molto più difficile seguire questa strategia. Per concludere, direi che non esistono situazioni che permettano l’espressione libera di qualunque tipo di atteggiamenti o valori; c’è sempre bisogno di una certa congruenza, di un certo consenso sulle regole, magari solo sulle procedure piuttosto che sulle norme fondamentali. In altre parole, si possono bilanciare esigenze e valori diversi, ma solo finché la distanza fra loro non è troppo ampia.

Alessandro Gamberini
Quali sono i limiti della libertà di espressione? Non si tratta di un diritto assoluto e certamente comporta un bilanciamento rispetto ad altri diritti altrettanto meritevoli di tutela. Leggendo la nostra Costituzione, all’art. 21, la libertà d’espressione incontra formalmente l’unico limite del "buon costume”. Se poi prendiamo le fattispecie che nel codice Rocco popolavano i reati d’opinione, ma che sono sopravvissute al controllo della Corte Costituzionale (i vari vilipendi, le forme di propaganda, istigazione), si poteva immediatamente verificare come il tema dovesse essere affrontato in modo diverso.
Ricordo tra le altre il reato di istigazione all’odio tra le classi sociali (art. 415); mi chiedevo: ma com’è possibile che una fattispecie di questo tipo sia legittima rispetto a una norma che prevede la libertà di manifestazione del pensiero?
Chiunque abbia in mente oggi le definizioni e i bilanciamenti che ci propone l’Unione Europea attraverso le leggi quadro, e la stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si rende conto che il discorso dell’odio, il cosiddetto hate speech, è quello che legittima sempre l’intervento di una normativa, se non di carattere penale, certamente di carattere censorio rispetto all’espressione del pensiero.
Dico questo perché, a uno sguardo retrospettivo, quell’insieme di reati che un tempo popolavano e in parte popolano ancora il codice Rocco, che apparivano desueti, destinati all’abrogazione e alla dichiarazione di incostituzionalità (e non lo furono perché la Corte, come detto, li legittimò), oggi li ritroviamo a pieno titolo alla luce di una giurisprudenza della Corte Edu e di una linea di intervento dell’Ue che propone le stesse ragioni fondanti, per quanto rivisitate, che erano state alla base della loro previsione nello stesso codice Rocco.
Faccio un’altra annotazione. Quando la Corte costituzionale italiana legittimò il vilipendio, affermò che era legittimo punirlo perché si trattava di manifestazioni "grossolanamente” aggressive dei valori incarnati da quella determinata istituzione presa di mira. Quell’espressione suscitò scandalo, anche in me, che su quella sentenza scrissi una nota critica, intitolata "I ‘pensieri leciti’ della corte costituzionale”: in fondo, si può essere raffinati o grossolani a seconda della propria formazione culturale; insomma, le idee potevano essere esposte in maniera grossolana ed essere al contempo meritevoli eventualmente di essere ascoltate.
Bene, è emblematico che se oggi ci addentriamo in una materia come quella del negazionismo, ritroviamo le stesse espressioni a fondamento della ragione della punibilità: si parla di "grossolana” minimizzazione della Shoah, assimilandola alla negazione, così come di altri crimini contro l’umanità.
Alla luce di una diversa maturità dell’approccio al tema, forse oggi capisco cos’era sotteso alla preoccupazione della Corte costituzionale italiana che legittimava queste fattispecie e cos’è sotteso al bilanciamento che sta a fondamento dell’apposizione di limiti alla libertà di manifestazione del pensiero. Le manifestazioni del pensiero da sempre possono essere "pericolose”; il diritto è posto appunto per tutelarle. Le manifestazioni del pensiero innocue non avrebbero bisogno di essere tutelate: se ci mettiamo a discutere sul colore di queste sedie avremo opinioni diverse, ma nessuno pone il problema del diritto di esprimerle nella forma che più ci aggrada. Quindi, la pericolosità della manifestazione del pensiero è elemento coessenziale al diritto di manifestarlo. Una pericolosità che cambia radicalmente a seconda del modo e degli strumenti che il soggetto ha a disposizione per evidenziare le sue scelte.
Nell’Ottocento, quando questo diritto veniva celebrato e richiamato come diritto fondante le società liberali, il pensiero era selettivamente riposto nelle biblioteche... Insomma, che Bakunin scrivesse parole incendiarie che venivano poi cristallizzate nella pubblicazione di un’opera omnia non interessava a nessuno. Si diceva: c’è un’ampia possibilità di manifestare il proprio pensiero, anche incendiario. In realtà era un pensiero la cui pericolosità veniva prosciugata dalla selettività dello strumento, comunque inibito alla maggioranza della popolazione analfabeta. Quando nel Novecento arriva la società di massa, e il ruolo della propaganda nei regimi totalitari diviene essenziale, cambia tutto.
Facendo un ulteriore salto, oggi l’irruzione della rete, di internet, ecc., permette a un pensiero che viene manifestato di fare il giro del mondo in poco tempo, quindi ha una valenza evidentemente inimmaginabile rispetto a quella del passato. Il diritto alla libertà di espressione del pensiero è dunque un diritto che si bilancia più di altri a seconda dei contesti. Oggi, in effetti, viviamo in una situazione che può rendere sommamente pericolosa la sua espressione, un contesto delicato in cui si tratta di capire quali sono allora le fonti che ci garantiscono il diritto di esprimerci e con quali limiti.
Dico subito -e con inquietudine- che queste fonti non ci sono, se non nel senso di un apprezzamento bilanciato, che di volta in volta può essere effettuato attraverso un uso selettivo degli strumenti esistenti: ci sono periodi in cui i reati di apologia, di vilipendio, vengono utilizzati e altri in cui rimangono lettera morta.
Fermo restando che il bilanciamento varia anche a seconda delle materie. Da sempre la materia politica è stata ritenuta quella in cui più che altrove andava garantita la parola anche scandalosa e conflittuale; il pluralismo politico si regge proprio su tale garanzia: possibilità che si manifestino le opinioni più diverse è coessenziale agli ordinamenti a democrazia liberale.
Dall’altra parte abbiamo i limiti indicati espressamente nelle categorie richiamate dall’art. 10 della Convenzione europea, cioè la sicurezza, l’ordine pubblico, inteso come ordine pubblico costituzionale, cioè la possibilità che in un contesto pluralistico le opinioni si possano confrontare. Questo permetterebbe di ritenere che possono essere censurate alcune forme di opinioni che "rompono” il dibattito pluralistico perché estremizzano il conflitto in termini tali da impedire proprio un dibattito plurale. Si invoca nella giurisprudenza delle Corti la categoria della "tranquillità pubblica”, intendendo la possibilità per i gruppi che compongono una certa società di rimanere assieme, in un rapporto pluralistico ma armonico, tollerante, capace di tessere una vita per la nazione senza spararsi addosso.
Il fatto è che l’ordine e la sicurezza pubblica sono categorie "onnivore”, molto difficili da utilizzare senza sconfinamenti.
Insomma, parliamo di categorie giuridiche la cui possibilità di essere argine al prosciugarsi del diritto in una situazione di eccezione è molto modesta. Sono categorie che, di nuovo, dipendono sempre da contesti; non a caso la Corte europea fa sempre riferimento a un margine discrezionale degli stati quando legittima forme particolari di restrizione. Ma se il contesto è decisivo queste categorie possono sempre risentire di effetti molto significativi in una situazione in cui siamo di fronte a stati di emergenza.
Nel vecchio adagio si diceva: "Scherza coi fanti”, ma vediamo che anche col fante non si può scherzare fino in fondo, dipende dai casi.
Poi ci sono delle materie più complesse. L’occasione di questo incontro parte da una materia attinente alla libertà religiosa, a tutela del sentimento religioso: ecco, anche su questo occorre considerare che siamo di fronte a un panorama variegato.
In Italia non esiste più il reato di blasfemia; esisteva il reato di bestemmia, ma è stato depenalizzato qualche anno fa ed è attualmente sanzionato in via amministrativa come una forma di turpiloquio; esisteva il reato di vilipendio della religione cattolica, come religione di stato, ma la Corte l’ha espunto dichiarando che, per poter legittimarsi, serviva una norma che punisse il vilipendio del "sentimento religioso”, ricomprendendo un sentimento che può essere proprio di varie religioni.
Vi sono invece stati dell’Unione europea in cui il vilipendio esiste. Rimane dunque su questo terreno una diversità molto evidente tra paesi che hanno della laicità una certa concezione, e quindi non hanno mai avuto nel loro ordinamento alcuna forma di reato di blasfemia, e paesi invece che hanno una diversa impostazione e la mantengono.
Su questo la giurisprudenza della Corte Edu è un po’ ondivaga. Basti citare la nota sentenza sul crocefisso: nel 2009 l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è stata considerata in prima istanza una violazione del diritto di libertà religiosa, ma nel 2011 la Grande Camera a sezioni riunite ha cassato la sentenza di primo grado che aveva dato ragione ai ricorrenti. O pensiamo, prima ancora, alla sentenza sempre della Corte Edu che nel ’95 aveva legittimato la censura fatta a un piccolo cineforum di Innsbruck per aver proiettato una pellicola ritenuta irriverente nei confronti del dogma della trinità della religione cattolica; il film era certo provocatorio, ma era un cineforum che faceva entrare previo pagamento, oltretutto vietato ai minori di diciotto anni!
In questi casi, la Corte fa riferimento alla tradizione del contesto: in Tirolo l’87% sono cattolici praticanti, vogliamo forse sconvolgere le loro abitudini?
Quindi, il tema del sentimento religioso è un tema variegato nell’ordinamento degli stati. Se stiamo alla giurisprudenza della Corte Edu citata, è un tema che merita una tutela che, quand’anche non legittimi una norma penale, può autorizzare una forma di censura e di blocco della comunicazione. A prescindere dal piano giuridico della sanzione, esistono poi anche valutazioni di opportunità sulla quale ciascuno di noi può motivare le sue scelte.
È comunque indubbio che, quando si governa una materia che si può inoltrare pesantemente nelle convinzioni dei singoli, siano queste morali, religiose, legate all’onore, la possibilità di intravvedere limiti a espressioni che siano direttamente e pesantemente aggressive di tali sentimenti, trova una sua maggiore giustificazione.
In Italia ora, nel nome della forza della corporazione dei giornalisti, si è inteso sminuire il significato del delitto di diffamazione, che invece proprio alla luce della potenza dei media porta con sé la possibilità di distruggere la vita sociale di una persona esponendola al pubblico ludibrio. Dico questo perché la materia in qualche modo può essere contigua a quella della tutela del sentimento religioso.
Da ultimo, aggiungo che nel caso di "Charlie Hebdo” eravamo di fronte alla satira. La satira ha sempre avuto un suo spazio di maggior tutela; avendo la pretesa di suscitare il riso e non l’odio, nei limiti in cui si mantenga su questo terreno, è evidente che lo spazio di intervento della satira deve essere garantito alla luce della nostra tradizione culturale e, aggiungerei, in modo del tutto indipendente dall’esistenza di settori della società che ritengono offensive anche forme di satira che di per sé non vanno a suscitare il disprezzo, la violenza, l’odio.

Emanuela Fronza
Cercherò di fornire alcuni elementi di riflessione prendendo spunto da un dibattito sorto in Francia dopo gli attentati che hanno segnato la città di Parigi tra il 7 e 9 gennaio 2015.
All’indomani degli attentati c’è stata una grandissima manifestazione a Parigi. Pochi giorni dopo, un comico, Dieudonné, è stato accusato e per alcune ore detenuto per apologia di terrorismo. In Francia si è così scatenato un dibattito sulla libertà di manifestazione del pensiero, sulla satira e anche sull’apologia di terrorismo. In particolare ci si chiedeva: questi due avvenimenti, le reazioni agli attentati e l’accusa a Dieudonné di apologia di terrorismo, mostrano un’incoerenza del sistema francese rispetto alla tutela della libertà di espressione? Si è parlato di libertà di espressione "a deux vitesses”, a due velocità, e di due pesi e due misure o ancora di doppio standard.
Partiamo da qui. Dieudonné, l’11 gennaio, pochissimi giorni dopo gli attentati, ha scritto su Facebook "Je me sens Charlie Coulibaly”, associando uno slogan di sostegno al giornale "Charlie Hebdo” al nome di colui che ha ucciso i quattro uomini ebrei nel supermercato kosher e anche un appartenente alla polizia. Mi sembra molto interessante prendere questo spunto per riflettere sull’essenza della libertà di espressione, ma anche sui limiti che possono comprimere, ridurre questa libertà a fronte di un mutamento di contesto, di scenario, che mi sembra innegabile.
In Francia, a differenza di altri paesi europei, la blasfemia non costituisce reato, anche se esiste una tutela del sentimento religioso attraverso un insieme di disposizioni contenute nella Legge sulla libertà di stampa del 1881. Quindi, sulla carta, si può essere perseguiti per esternazioni, disegni, film, ecc. che offendono il sentimento religioso. In particolare, le fattispecie cui si attinge per limitare le offese alla religione sono la provocazione a crimini e delitti ("seguita da effetti o meno”, dice la legge francese) alla discriminazione, all’odio e alla violenza, nonché l’ingiuria e la diffamazione.
È interessante segnalare che la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri per tracciare i limiti alla libertà di espressione. Si tratta di criteri definiti come neutrali, cioè non di contenuto ma di modalità, come, ad esempio, la gratuità delle affermazioni: se le affermazioni sono gratuite, si può ammettere una compressione della libertà di espressione. Un altro criterio è la partecipazione o meno a un dibattito generale, di interesse pubblico: è questo un criterio che si ritrova nella giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo. In questo caso, è la libertà di espressione che, in un’ottica di bilanciamento, può ridurre altri diritti; e poi vi è il criterio della diffusività, già menzionato dalle relazioni precedenti. E cioè quanto ci si può o meno difendere dalle esternazioni: se il potenziale di diffusività è elevato la libertà di espressione potrà essere limitata.
Nella giurisprudenza francese la satira risulta molto tutelata. Ricordo che tra gli anni Novanta e il 2014 "Charlie Hebdo” è stato processato circa cinquanta volte. Varie volte le giurisdizioni francesi si sono trovate a confrontarsi con alcune vignette su Maometto e hanno ribadito che, pur avendo queste carattere provocatorio, rientravano nell’ambito della libertà di espressione e di comunicazione del pensiero. Quindi, in generale si può dire che in Francia vi è una certa tolleranza su questo versante.
Parallelamente, tuttavia, anche la Francia partecipa a una tendenza più generale, che emerge in alcuni studi anche italiani e in alcuni documenti del Consiglio d’Europa, e cioè a un incremento della tutela penale "dalla” religione. Con questa formula si intende l’esistenza di tecniche di intervento del diritto penale che reprimono manifestazioni, anche motivate dalla religione, che possono portare all’odio, alla violenza, alla discriminazione.
Ho parlato di una libertà "a due velocità”.
Venendo ora a esaminare l’apologia di terrorismo, è importante anche qui individuare alcuni elementi per la riflessione più generale sui limiti alla libertà di espressione. L’apologia di terrorismo, fino a metà novembre 2014, era prevista dalla legge sulla libertà di stampa. A metà novembre 2014, con la Loi Cazeneuve, si è deciso di spostare questa fattispecie criminosa (attenzione: solo l’apologia di terrorismo) dalla legge sulla libertà di stampa al codice penale.
Questo spostamento ha introdotto contestualmente un diritto penale segnato da percorsi speciali, più severi e abbreviati. Non solo: questa nuova legge introduce un’aggravante per tutte le esternazioni che avvengano mediante internet. La pena, infatti, passa da cinque a sette anni, con la possibilità di un contestuale blocco amministrativo del sito, cioè senza un provvedimento di convalida da parte di un giudice.
Moltissime organizzazioni non governative, come la Lega dei diritti umani, hanno denunciato queste misure. Va anche precisato che la norma non è rimasta inapplicata. Al contrario, si assiste a una moltiplicazione dei casi di apologia di terrorismo: da gennaio 2015, circa settanta persone sono state perseguite per dichiarazioni riconducibili all’apologia di terrorismo, la cui definizione è tra l’altro molto ambigua. Ecco perché si è parlato di due pesi e due misure rispetto al diritto di libera manifestazione del pensiero.
A conclusione del mio intervento, vorrei rilevare come, in Europa, Regno Unito compreso, il fenomeno del terrorismo internazionale abbia creato una stretta sulla libertà di espressione. Questo a differenza degli Stati Uniti dove il Patriot Act, discutibilissimo sotto altri versanti, non è intervenuto sulla libertà di espressione.
Oggi, in Spagna, si discute su un nuovo progetto di codice penale e alcune norme riguardano proprio i reati di pensiero. Anche il solo leggere determinate pagine con l’intenzione di aderire a un’organizzazione terrorista, può essere punito, così come redigere alcuni documenti idonei a rinforzare la decisione altrui a commettere delitti terroristici.
Vorrei segnalare un ultimo aspetto, una legge di qualche giorno fa del Regno Unito: il Counter-terrorism and security Act. In questa nuova legislazione antiterrorismo, la sezione 5 riguarda l’educazione superiore e l’università. Ebbene, in questo atto si chiede che l’università, i professori universitari contribuiscano a impedire che le persone vengano attratte in percorsi di terrorismo. Come? Anche imponendo ai docenti di monitorare e segnalare studenti o eventuali materiali estremisti presenti nell’università.
Il governo inglese nelle Guidelines di questo Act fornisce una definizione estremista  -cito: "Ogni opposizione verbale o attiva ai valori britannici fondamentali, compresi la democrazia, la rule of law, la libertà individuale, il rispetto reciproco e la tolleranza di fedi differenti”. Più di mille professori universitari hanno scritto una lettera dicendo che questo provvedimento va contro l’essenza, la natura dell’università. Torniamo dunque alla domanda iniziale: nel contesto attuale, coi mezzi che vi sono a disposizione, che idea dobbiamo avere del diritto alla libera manifestazione del pensiero? Assoluta, relativa? Alessandro Gamberini sottolineava come si tratti di una libertà con potenziale eversivo; d’altra parte se svuotiamo questa libertà di questo potenziale vi è da chiedersi se non la snaturiamo.

Gaetano Insolera
Ho visto un punto di convergenza tra le relazioni: il principio di libera manifestazione del pensiero è un principio non declinabile in termini assoluti ma che necessariamente incontra dei limiti. D’altronde, è difficile trovare principi, pur pertinenti agli assetti delle democrazie liberali, che siano assoluti. Il problema è allora l’individuazione dei limiti e dei contesti. A questo proposito mi sembra che ci siano due fronti. Uno fa riferimento ai possibili limiti alla libertà di manifestazione del pensiero nei confronti di un fenomeno attuale, particolare, speciale, quale è quello del terrorismo internazionale. Quindi il rapporto tra libertà di espressione e terrorismo. L’altra faccia della questione è la tutela del sentimento religioso; sono due aspetti che si incrociano, si intrecciano. La legge emanata nel Regno Unito esprime forse la percezione di quella nazione, di quella società, di essere in uno stato di guerra: in uno stato di guerra, la richiesta di delazione nei confronti del nemico interno può apparire legittima, ma possiamo anche dire che quella percezione è sbagliata, infondata.
Dall’altra parte abbiamo la strategia politico criminale francese, ispirata dall’Unione europea e ancora una volta anchilosata in categorie tutto sommato inefficaci e insufficienti: fare tanti processi per apologia di terrorismo, ad esempio, può pregiudicare l’attività di intelligence.
Altro tema: quando sento parlare di tutela del sentimento religioso, penso che si stia prendendo una strada sbagliata. La difesa dei margini di libertà di espressione è sacrosanta. Fatto salvo questo, mi chiedo però se si possano immaginare delle limitazioni. Non penso assolutamente a una repressione penale, ma a dei bilanciamenti che non hanno come obiettivo né l’ordine pubblico, né la pubblica tranquillità né queste categorie un po’ vuote, bensì in una logica di prevenzione di fatti gravissimi ai danni della popolazione.
Allontanandoci da un’idea assoluta di libera manifestazione del pensiero, mi chiedo se, in ragione di meri calcoli utilitaristici (legati al fatto che i singoli stati non sono in grado di tutelare l’incolumità dei loro cittadini) potremmo essere disposti, ad esempio, a pagare il prezzo della rinuncia a certe forme di irrisione religiosa, proprio perché non siamo in grado di garantire che la loro diffusione non colpisca vittime innocenti.
Qui parliamo di un dosaggio molto empirico. Già oggi esistono, ad esempio, interventi che bloccano forme di pubblicità commerciale che offendono il sentimento religioso, le donne, ecc. Capisco bene che sono discorsi che danno fastidio alla nostra sensibilità di persone vissute nell’epoca d’oro dell’Occidente, però, posto che l’epoca dell’oro sembra finita, probabilmente sono spunti su cui si può riflettere.

Carlo Guarnieri
Dietro questo aspetto c’è la questione dell’ordine civile, che non è un concetto normativo, ma descrittivo. Cioè, in altre parole, ci si riferisce a uno stato di relativa pace sociale. Uno stato, diciamo in cui in una certa comunità, in un certo territorio, il livello di violenza è tenuto sotto controllo. Ora, il problema che qui emerge è che questa dimensione di ordine civile, che bene o male i nostri stati hanno tenuto abbastanza sotto controllo, oggi appare sotto scacco, comunque, minacciata, e questo fa probabilmente scattare la tendenza a introdurre tutta una serie di reati per cui, per tornare alla metafora di Blackstone, il veleno non lo puoi più neanche tenere chiuso in casa.

Alessandro Gamberini
Si è citato lo stato d’eccezione. È evidente che lo stato di eccezione pone in tensione tutti i limiti. Io personalmente non valuto che siamo in questa situazione. Quella dichiarata oggi è una guerra tra musulmani e noi subiamo conseguenze di tipo terroristico. Dopodiché, è evidente che nelle società che hanno adottato modelli multiculturali, come la Gran Bretagna (io sono sempre rimasto perplesso del fatto che in quella società si potesse affidare alla sharia il governo delle relazione famigliari) a un certo punto puoi scoprire che il terreno d’incontro tra questi differenti gruppi non ha più dinamiche di convivenza possibili. E allora recuperi i valori britannici. Noi, per vari motivi, non abbiamo recepito questo modello, come non lo ha recepito la Francia.
Aggiungo che il processo penale è sempre un modello residuale di intervento per reprimere fenomeni sistemici. Si è parlato anche di censura preventiva in materia di stampa e di libertà di manifestazione del pensiero. Questo segnerebbe un salto di qualità e tuttavia un dibattito anche franco, feroce, su questo tema potrebbe consentire di trovare degli strumenti autoreferenziali. Negli Stati Uniti, che pure sono artefici di una libertà d’opinione apparentemente senza confini, "Charlie Hebdo” non sarebbe mai uscito. Semplicemente perché nel politicamente corretto non esiste la possibilità che tu aggredisca gli altri gruppi culturali o religiosi.
Io comunque resto dell’idea che ci debba essere un nucleo essenziale di limiti e diritti fondanti su cui tu non arretri. Cioè non possiamo permetterci di snaturare una tradizione giuridica e culturale che ha fatto della possibilità di manifestare il proprio pensiero, anche in termini conflittuali, pluralistici, uno dei suoi elementi essenziali.