Terzo settore, terzo sistema, non profit, economia civile… sono innumerevoli i tentativi di costruire e di definire il grande contenitore nel quale riversare pratiche e attori sociali, che sfuggono ai chiari e consolidati criteri di classificazione dei sistemi di azione: l’agire amministrativo pubblico e l’azione privata di mercato.
Dentro questo generico recipiente si affastellano dati statistici: numero sterminato di organizzazioni non profit, cifre che quantificano la presenza dell’impegno volontario e del lavoro dipendente, comparazioni internazionali. La precisione matematica in questo caso fallisce: i risultati statistici sono discordanti, contraddittori, controversi.
L’almanacco delle buone pratiche di cittadinanza con le sue numerose e lunghe interviste che raccontano esperienze di intervento sociale su scuola e immigrazione, disagio mentale e cura del dolore, contratti di quartiere e difesa di beni comuni, ecc., cambia il punto di vista, muta angolazione. Qui prevale l’approccio “soggettivo” che racconta le motivazioni, le capacità e i limiti degli attori sociali, narra i percorsi e le forme del mettersi insieme, fa emergere le interazioni concrete con l’ambiente e con i soggetti, le difficoltà incontrate, le risorse e le competenze attivate, i modi e i livelli di incontro con la pubblica amministrazione.
Sono sondaggi puntiformi che scendono in profondità all’interno di segmenti parziali, interrogano la qualità del frammento.
Mi pare inedito l’apporto “qualitativo” di conoscenza che proviene da un agire sociale che si racconta.
Non è affatto esaustivo questo approccio, ma proprio perché è troppo trascurato lo ritengo molto prezioso.
Mi limito ad estrarre dal corposo materiale delle 400 pagine dell’Almanacco due spunti che utilizzo per sviluppare argomentazioni di carattere più vasto che voglio collocare ad introduzione di questo mio intervento.
Prendo avvio dalla bella intervista ai membri di una cooperativa di tutoraggio di ragazzi in gravi difficoltà in un quartiere degradato di Napoli. L’associazione ha un nome misterioso “Il tappeto di Iqbal”. L’intervistato spiega che quel nome richiama la vicenda di un piccolo schiavo pachistano ucciso a dodici anni dalla mafia dei tappeti quando ha cercato di organizzare la resistenza alla disumana condizione sua e dei suoi compagni. Il collegamento simbolico tra quell’esperienza così lontana nello spazio e l’azione di sottrazione di ragazzi napoletani alla servitù del circuito camorristico evidenzia una rilevante circolazione globale di informazione ed identificazione all’interno di pratiche sociali e valori condivisi: impegni sociali molecolari molto diffusi ma anche fittamente interconnessi.
Le buone pratiche di cittadinanza non nascono dal buon cuore ma dall’interazione tra la risposta a bisogni “locali” e il coinvolgimento nella costellazione di ideali e di esperienze comunicati dalla diffusione dei nuovi movimenti sociali. Senza Seattle e Porto Alegre e senza internet si rischia di capire molto poco delle forme della sociabililità contemporanea.
La seconda occasione di riflessione l’estraggo dalla ricca intervista a due animatori dell’associazione friulana “Vicini di casa”.
Gli intervistati anche questa volta prendono il discorso da lontano, ma da lontano nel tempo: “In Friuli ogni paese aveva la sua latteria sociale cooperativa, erede della vecchia esperienza cooperativa cattolica e socialista di fine 800 e inizi 900…”. I tempi nuovi hanno travolto quell’esperienza rurale che però ha lasciato un’eredità di tradizioni culturali e di strutture materiali. Si è deciso di rilanciare quel patrimonio antico per affrontare un problema nuovissimo: offrire agli immigrati una possibilità di civile inserimento abitativo. Ora l’associazione gestisce l’affitto di 1500 famiglie di immigrati.
Perché il nome “Vicini di casa”? Gran parte dei lavoratori friulani erano muratori migranti e costruivano da sé la propria casa al paese con il mutuo sostegno tra vicini di casa.
Anche in questo caso la buona pratica attiva nel presen ...[continua]
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