10 maggio. Renzi da Fazio
Ci sono date fatidiche in cui le scelte degli uomini decidono la piega che prendono gli eventi, il che è pure incoraggiante perché ci dimostra che non tutto è predeterminato, che si può far sempre qualcosa, e però resta il grande rammarico quando la scelta risulta poi catastrofica. Nel nostro piccolo italiano, un giorno di questi, come ci spiegò a suo tempo Marco Boato in un’intervista magistrale, è stato l’11 maggio del 1993 quando Occhetto e D’Alema decisero che i ministri del Pds dovevano uscire dal governo Ciampi dove erano entrati da dieci ore. I verdi fecero lo stesso. Nel pomeriggio il parlamento aveva respinto le richieste di autorizzazione a procedere contro Craxi. Quel giorno il Pds, decidendo di cavalcare l’ondata delle cosiddette "mani pulite” decretava la fine della legislatura e il ricorso a elezioni che consideravano vinte in partenza. Misero in moto quella "gioiosa macchina da guerra” che si sarebbe andata a schiantare fragorosamente contro l’improvvisa, e non si sa se addirittura improvvisata, discesa in campo di Berlusconi. Forse, se il governo Ciampi fosse durato, non avremmo avuto Berlusconi, avremmo un partito popolare, oltre al partito della sinistra, e saremmo in una situazione simile a quella della Germania, assai meglio attrezzata di noi a contenere l’ondata nazionalistica. Tant’è.
è probabile, purtroppo, che il giorno in cui Renzi ha scelto di andare da Fazio diventi un’altra data fatidica della recente storia italiana. è grazie a quella scelta che i cinquestelle sono stati sospinti fra le braccia della Lega, cioè del partito lepenista italiano. Non si è voluta verificare la possibilità di tenerli lontani dalla destra, come richiedevano sia l’interesse nazionale, per evitare i rischi spread e Visegrad, che l’interesse di parte, quello di un partito di sinistra che, avendo perso il consenso dei ceti popolari, poteva almeno cercare di impedire di compattarli sotto l’egida di un governo di destra. Dopodiché, una volta fatta fallire ogni possibilità di dialogo, quelli del Pd hanno cominciato a dire: "Sono andati dove volevano andare fin dall’inizio”, cioè a destra. Questo non si sa. Quel che si sa per certo è che i renziani inseguivano questo obiettivo fin dal giorno dopo le elezioni: hanno ripetuto allo sfinimento che "doveva governare chi aveva vinto”, affermazione del tutto demenziale riferita a un parlamento eletto in modo proporzionale; quel Marcucci, che, anche se non si sa perché, è uno dei primi dirigenti del Pd, lo ha detto subito: "Non vedo l’ora di vederli giurare”.
D’altra parte basta chiedersi perché mai, se con loro era così impossibile andare d’accordo, Renzi non abbia lasciato il compito di rompere alla delegazione che sarebbe andata all’incontro. Per chi crede che la politica sia il regno della furbizia non sarebbe stato difficile addossare agli altri la colpa di un mancato accordo. Perché intervenire da Fazio attirandosi critiche da ogni parte, ridicolizzando le regole del proprio partito, umiliandone il segretario, e rendendosi, se possibile, ancora più antipatico a tutto il mondo? C’è solo una risposta che non sia quella della confusione mentale: un buon accordo era possibile, i segnali mandati dai cinquestelle erano molto seri. Allora sì, che bisognava intervenire per scongiurare l’incontro. Il tutto per quale calcolo? Forse per la sopravvivenza di un gruppo dirigente che non avrebbe retto all’umiliazione di un accordo con gli odiati e trionfanti cinquestelle; forse la speranza che il governo Lega-Cinquestelle faccia tali disastri, del tipo spread alle stelle, da far rimpiangere agli elettori i responsabili democratici. Ora ex responsabili.

13 maggio. Il 68 e Aldo Moro
Marco Boato nel suo bel libro Il lungo 68 in Italia e nel mondo, racconta che in quell’anno, mentre la rivolta studentesca dilagava e la polizia presidiava le università, Aldo Moro, che era presidente del consiglio, fece chiamare uno dei capi del movimento, Silvano Bassetti, del Politecnico di Milano, per cercare di capire cosa stesse succedendo. Solo dopo molti anni Bassetti ne ha parlato rivelando di come Moro fosse curioso delle motivazioni ideali del movimento e, al tempo stesso, molto angosciato. Alla fine del colloquio Moro aveva chiesto al suo interlocutore cosa avrebbe fatto al suo posto e Bassetti aveva risposto che avrebbe richiamato la polizia dalle università. Moro non disse nulla e si salutarono. Bassetti racconta che fu grande la sua sorpresa, la mattina dopo, nel vedere che la polizia era stata ritirata. Quell’incontro, rimasto per tanto tempo riservato, da solo fa di Moro un grande uomo e un grande statista. A me ha colpito anche un particolare che non conoscevo: Moro aveva interrogato Bassetti sulla possibilità che fra i rivoltosi circolassero armi, cosa che Bassetti escluse. Chissà se quella sua domanda gli sarà ritornata in mente dieci anni dopo quando nel bugigattolo aspettava che lo passassero per le armi.
Non credo che nel 68 ce ne fossero in giro, ma la violenza la predicavamo già e quel che posso dire, per quel che mi riguarda, è che nel ’71 io ne avevo in dotazione una. Per autodifesa: erano in corso importanti occupazioni di case e si temevano aggressioni da parte dei fascisti e, anche, della malavita. L’arma non fu mai usata, la tenevo in una scarpa nello sgabuzzino delle scope e per puro caso decisi di liberarmene poco prima che subissimo una perquisizione della polizia. Negli anni successivi la violenza dilagò e se anche il gruppo a cui appartenevo può ben vantare di aver fatto argine alla lotta armata, nel tempo, pensando e ripensando agli anni che vanno da Valle Giulia a via Caetani, una risposta me la sono data: non possiamo liberarci dalla responsabilità di quello che è successo.
Ad Aldo Moro, poi, mi sono affezionato. Ho trovato anche il modo di ricordarlo spesso: le sere che esco da casa ho preso l’abitudine, che non avevo, di guardare se il gas è chiuso. (da facebook)

2 giugno. Mattarella e Savona
Diciamo che essendo del tutto incompetenti dovremmo stare zitti. E però i cittadini parlano, e sparlano certo, il che, comunque, è una buona cosa. Quindi parliamo.
Ma la tutela del risparmio, anche se è citata in costituzione, è un compito del presidente? Se per tutelare il risparmio ci sono idee diverse, quella del presidente può avere il sopravvento su quella della maggioranza del parlamento? Un po’ strano per una democrazia parlamentare. E mettiamo pure che in parlamento ci finisca una maggioranza euroscettica, il presidente della repubblica potrebbe ostacolarla o addirittura "bocciarla”, rimandando gli elettori alle urne? Fra le argomentazioni portate a favore di un veto presidenziale su Savona ne sono state citate tre: la sua posizione antieuro in generale, poi, più precisamente, un suo scritto in cui si delinea la procedura per uscire dall’euro (stampare in segreto qualche miliardo di lire, agire di venerdì sera, ecc.; cose che hanno fatto una certa impressione, ma risultate poi ovvie per ogni tipo di piano B); infine il fatto che nella campagna elettorale non si fosse fatto cenno di tutto questo. Quindi estremizzando si potrebbe attribuire al presidente il compito di vagliare le idee politiche dei proposti, ma poi, per essere sicuri, pure tutti i loro scritti e infine, per verificarne la sincerità elettorale, tutti i programmi e le dichiarazioni elettorali. E a quel punto non solo sull’Europa e sull’euro, ma anche per i trattati, per la pace, insomma un po’ per tutto. In pratica un vero e proprio screening completo di ogni candidato ministro. Saremmo all’assurdo di un presidente buon padre, ma assai occhiuto, che vigila che un parlamento adolescente non faccia sciocchezze. è possibile che i costituenti intendessero questo con quel "nomina” e non piuttosto l’apposizione del sigillo dell’intera nazione a una proposta che non può che essere di parte, se pure maggioritaria? Si ripete che in Italia il presidente è più di un notaio, come se il notaio fosse un ruolo da poco, riduttivo. Ma il notaio non è quello che controlla, e attesta, che tutto sia fatto in regola? Beh, non è poi poco. Anche perché, altrimenti, se, cioè, il presidente "entra in politica”, la sua elezione diventerà terreno di scontro fra le parti e si indebolirà una delle poche istituzioni di garanzia che abbiamo.
Altre volte abbiamo criticato il "sostanzialismo” di tanta sinistra, quello, per esempio, che ha spinto tanti magistrati progressisti a forzare le regole a fin di bene. Ora, se, come ci sembra di aver capito, la sostanza della democrazia è la forma, come la mettiamo? Fra il "fin di bene” e l’eversione il passo diventa brevissimo. C’è solo un caso in cui le regole si possono violare: per difendere il bene supremo del paese che è la libertà dei suoi cittadini. Noi di "Una città”, fra i pochi in Europa, con André Gluksmann e Barbara Spinelli solidarizzammo con le femministe e i democratici algerini che avevano appoggiato il "golpe democratico” dell’esercito, perché chi si apprestava a vincere democraticamente le elezioni non garantiva che ce ne sarebbero state altre (il loro leader lo dichiarò apertamente e quel che successe dopo ne provò tragicamente le intenzioni). Ma si trattava del partito islamofascista.
Detto infine fra parentesi: è un grave errore parlare di governo "fasciopentastellato”. La parola "fascista” va usata con grande cautela perché se pensassimo veramente che la Lega è un partito fascista, allora sì, che dovremmo cominciare a prepararci, dal presidente all’ultimo dei cittadini di fede democratica, a ben altre "forzature” delle regole.

Dove sono finiti?
Dove sono finiti i maggioritaristi? Quelli del 23 che fa 55? Non li si sente più. Se fosse per loro ora avremmo una dittatura (democratica, si intende) della Lega, oppure dei cinquestelle se il megapremio andava al singolo partito. Col proporzionale c’è stata almeno la riduzione del danno. Sono tornati buoni gli odiati compromessi, i "caminetti”, gli "inciuci”, che sono andati a smussare programmi casomai avventuristi e comunque oltremodo divisivi. Se poi non avessero fatto la correzione maggioritaria sarebbe stato ancora meglio. Ma già, i renziani pensavano in quel modo di contenere i cinquestelle! D’altra parte è da tempo che si varano leggi elettorali in base a calcoli di bottega e che siano quasi sempre sbagliati non toglie nulla alla gravità dell’intento. Cosa potrà pensare un giovane della politica, e non solo di quella, vedendo che è prassi che una parte cambi a proprio favore le regole del gioco di tutti? Non c’è legge più delicata di quella elettorale e al contrario di quel che può sembrare, vedendone i caratteri così tecnici e complicati, è una legge profondamente "esistenziale”, che ha a che fare con il carattere e la storia di un popolo. Come si sa le due leggi si distinguono per il semplice fatto che nella prima, la maggioritaria, chi arriva primo prende tutto, mentre nella seconda, la proporzionale, prende solo quello che gli spetta in proporzione. Cosa c’entra la storia e il carattere di un popolo? C’entrano, perché la prima, che è un gioco duro, "spietato” in un certo senso, presuppone una fiducia reciproca molto profonda, radicata nella storia, la fiducia che nessuno approfitterà di una vittoria "spropositata” artificialmente. Quando questa fiducia non c’è allora è meglio il proporzionale, perché la maggioranza, quasi sempre relativa, sarà costretta a trattare con altri e comunque le minoranze almeno saranno lì, con tutto il loro peso, poco o molto che sia, a controllare e, nel caso, a opporsi a ogni tentativo della maggioranza di approfittarsene.
è un caso che nei paesi in cui c’è stato il fascismo prevalga il proporzionale? E non possiamo ormai fare il bilancio della devastazione che il maggioritario ha portato alle istituzioni in un paese in cui da sempre non ci si fida gli uni degli altri?