Faccio parte della generazione di ingegneri che hanno cominciato a lavorare, subito dopo la laurea, nelle grandi aziende, nei grandi impianti petroliferi e siderurgici avviati nei primi anni Sessanta: all’Anic di Gela e al siderurgico di Taranto, tra gli altri. Un mio vecchio amico, che ho risentito nei giorni scorsi, ha lavorato a Taranto tutta la vita. Oggi i giornali parlano della polvere rossa che si accumula alla base degli altoforni a Taranto e si riversa sul quartiere Tamburi. Nel breve periodo in cui ho lavorato a Ravenna, nei primi anni Sessanta, nelle sale si proiettava Deserto rosso di Antonioni, sulla desolazione ambientale e sociale di quella città per l’arrivo della grande industria. Sono passato dalla grande industria alla editoria nei primi anni Settanta, quasi mezzo secolo fa, ma continuo a sentirmi coinvolto da ciò che succede nelle città colpite dall’inquinamento industriale anche più pesantemente di Torino, da cui sono scappato per vivere in campagna.
Ho un ricordo personale di alcuni dei traumi sociali prodotti dalla costruzione e dall’avvio dei grandi impianti. Non si è trattato solo di condizioni di lavoro pesanti e di conflitti sindacali. Né solo di grave inquinamento ambientale. Si è trattato anche di importazione di lavoratori e di immigrazione delle famiglie senza abitazioni e piani urbanistici adeguati. A Taranto la popolazione, tra il ’61 e l’81, è aumentata da 180.000 a 240.000 abitanti. Non si è trattato di crescita naturale, di nascite che superano le morti, ma di immigrazione dalla regione, che ha più che compensato la grande emigrazione verso il nord, massima in quegli anni. Non sono stati solo i vecchi tarantini a respirare la polvere rossa e i gas al quartiere Tamburi. L’hanno respirata anche i nuovi immigrati, finiti ad abitare vicino agli impianti perché è lì che hanno trovato le case disponibili.
Del resto il comune di Torino è l’esempio più clamoroso in Italia di immigrazione prodotta dalla crescita industriale. La città aveva 670.000 abitanti nel ’51, superò il milione di abitanti nel ’61, raggiunse 1.200.000 nel ’71, cominciò a scendere nei decenni successivi, fino agli 884.000 di oggi. Senza contare gli irregolari, per usare il termine che si usa oggi per gli immigrati stranieri: i familiari privi di residenza e i lavoratori in nero nell’indotto.
Quando si parla di Ilva, della polvere, dei fumi, può capitare di pensare che sarebbe stato meglio se i grandi impianti siderurgici non fossero mai stati costruiti. Intanto però si guida la propria automobile, che non solo inquina ma è stata costruita con l’acciaio prodotto, se non proprio all’Ilva, in un’acciaieria simile, verso una casa che, se non è bassa e in mattoni, si regge grazie ai tondini di acciaio affogati nel cemento e nelle scanalature dei forati, su cui poggiano i pavimenti, se non poggiano sulle travi d’acciaio a doppio T.
Non bisogna guardare al passato come a un processo rigido, che non poteva andare che così, ma neppure come a un fenomeno totalmente volontario che i cittadini e i politici avrebbero potuto modificare a piacere, senza vincoli o conseguenze gravi, evitando tutto ciò che oggi ci sembra negativo. Ma ciascuno di noi avrebbe potuto fare scelte diverse; e i soggetti collettivi, sociali, a seconda delle dimensioni e della forza, avrebbero potuto cambiare la natura e gli effetti dei processi. In particolare, nel caso della costruzione dei grandi impianti, gli interventi istituzionali, economici, sociali, avrebbero potuto e dovuto riguardare non solo le modalità tecniche della costruzione ma i modi del reclutamento e dell’accoglienza dei lavoratori, oltre alla retribuzione e alle condizioni di lavoro, a partire dalla sicurezza. Non si è trattato solo della scelta di fare o non fare ma del dove e come fare. Non solo del modo di costruire gli impianti e del dove costruirli, scelta in parte condizionata dalla logistica, dalla necessità di fare arrivare facilmente il minerale e di trasportare facilmente i laminati e i tondini dall’impianto siderurgico alle industrie e alle costruzioni che usano l’acciaio. Si è trattato anche del dove e come costruire le case.
Discuterne non è solo un esercizio storico critico sul passato. Trasformazioni economiche e tecnologiche avvengono ancora, le migrazioni ci sono sempre e sono più evidenti perché sono anche migrazioni dall’estero e per l’estero, con problemi di lingua, di abitudini, di aspetto dei migranti. I modi della costruzione, del reclutamento ...[continua]

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