L’uccisione del Generale Qassam Soleimani ordinato da Trump e accompagnata da qualche danno collaterale ha suscitato su tutti i media numerosi commenti, in genere di tipo politico, sui rischi militari, le possibili rappresaglie -fino a ora, per fortuna, molto modeste- il rischio per gli equilibri strategici.
I morti, anche solo in un paio di giorni, a Bagdad, in Siria, sono stati molto più numerosi. Anche nella sola manifestazione di protesta per l’uccisione di Soleimani, secondo i giornali, i morti nella calca sono stati 56. Come scriveva Aggeo Savioli, in un verso di tanti anni fa, “di morti ce n’è sempre una gran torma”.
Ciò che distingue la morte del Generale da altre e più numerose morti, oltre all’importanza politica dell’ucciso, è che si tratta di un omicidio mirato, con un missile. A me sembra che l’omicidio mirato a opera di un tecnico che preme un bottone o il tasto di un computer a centinaia di chilometri di distanza, in un altro paese, senza che ci sia una guerra, sia un atto diverso dalla uccisione di un nemico in battaglia, durante una guerra tra stati, e più grave. Non si tratta solo del rischio e della asimmetria. Il soldato, anche volontario, spara per distruggere la forza militare del nemico. Se uccide un soldato del campo opposto diminuisce di uno i combattenti avversi. Anche il cecchino che prende di mira e uccide un nemico è pur sempre presente nello stesso luogo dell’ucciso. Avrebbe potuto essere preso di mira lui.
Il boia che uccide il condannato in uno stato che prevede la pena di morte è in una situazione apparentemente simile, in quanto conosce individualmente la vittima e non corre rischi, ma, ovviamente, molto diversa, istituzionalmente ed eticamente. Il boia agisce al termine di un iter giudiziario, dopo la condanna definitiva e l’eventuale rifiuto di concedere la grazia. Svolge un ruolo pubblico necessario e indipendente dalla sua volontà. Potrebbe non essere lui a uccidere, potrebbe smettere di fare il boia, ma non può cambiare il sistema giudiziario da solo. Chi ha deciso di uccidere legalmente i condannati con sentenza definitiva per certi reati è stato il legislatore. Chi compie quella particolare uccisione è l’autorità che applica la sentenza.
L’uccisione mirata di Soleimani è invece un atto arbitrario, forse utile allo stato per cui lavorano i funzionari che l’hanno deciso, forse motivato dal loro senso di giustizia, o di vendetta. Lo ha reso possibile non la certezza assoluta della colpa ma la potenza di quello stato. Per questo mi sembra un atto particolarmente grave.
Tu ucciderai
Ho provato a informarmi, in biblioteca e in rete, sugli omicidi mirati e ho rapidamente scoperto di non conoscere il mondo in cui vivo. Gli omicidi mirati sono una pratica frequente, a opera di stati che si dichiarano democratici, primi tra tutti Israele e gli Stati Uniti. Si tratta di centinaia di omicidi per singoli stati; in totale di migliaia, in 40 anni. La pratica è però ben nota ai giornali. Non suscita sorpresa. Non suscita neppure riprovazione; o almeno il dubbio che ammazzare qualcuno con cui non si è in guerra possa essere un omicidio.
Per citare casi legati a eventi di risonanza mondiale, gli autori e gli esecutori presunti dell’attacco alle Torri Gemelle sono stati sterminati, in qualche caso insieme ai figli, con omicidi mirati. Un caso di rilievo è Anwar al-Awlaki, cittadino americano, nato a las Cruces, New Mexico, padre di origine yemenita, ritenuto uno dei maestri e ispiratori degli esecutori dell’attacco alle Torri Gemelle e di altri attentati, ucciso il 30 settembre 2011, nello Yemen, con un drone. A qualche settimana dalla sua morte, due suoi figli, Abdulrahman, un ragazzo di 16 anni, e Nawar, una bambina di 8, furono uccisi anche loro, con droni, sempre nello Yemen. Del maggiore si legge che aveva un ottimo inglese e incitava al terrorismo, ma la minore? Evito di copiare dalla rete, dove ognuno può leggerle in dettaglio, altre notizie su al-Awlaki e la sua avventurosa vita. Per lui si legge che ci fu un tentativo di incriminare gli Stati Uniti per omicidio. E per i figli?
Quando si esce dalla sfera dei rapporti tra privati, in uno stato singolo, dove è chiaro qual è il codice da applicare, la certezza del diritto diventa un desiderio irrealizzabile. Nel caso di Soleimani l’uccisione è avvenuta in uno stato di cui non era cittadino e di cui non è chiaro chi sia il governo legittimo e neppure quello di fatto, con missili partiti da un altro stato, su decisione di un leader politico di un terzo stato.
Uccidi per primo
Cercando a caso dati e testi sugli omicidi mirati, ho trovato il link, riportato in fondo, a Uccidi per primo, di Ronen Bergman, tradotto da Mondadori nel 2007, interamente leggibile in rete. Bergman, come si apprende dal libro, è “corrispondente senior per gli affari militari e l’intelligence di ‘Yedioth Ahronoth’, il più grande quotidiano israeliano, e collaboratore del ‘New York Times Magazine’ ...”. Israele non è certo l’unico stato a essere nato anche dalla violenza e ad avere usato omicidi mirati, ma li ha usati più di altri. La Corte Costituzionale di Israele, in due sentenze, del 2005 e del 2006, li ha dichiarati legittimi, purché non uccidano troppi innocenti. Il libro potrebbe essere definito la storia di Israele attraverso gli omicidi mirati, da prima dell’esistenza dello stato, dal 1914, fino alla fine del secolo scorso. Cominciarono, un secolo fa, alcuni ebrei russi in fuga dallo zar, immigrati in Palestina, che si portarono appresso la tecnica degli omicidi mirati e la usarono contro la potenza mandataria, la Gran Bretagna. Ho letto il libro con coinvolgimento e angoscia per il numero delle uccisioni, per la contiguità con le situazioni e con i comportamenti dei governi di paesi molto importanti, a cominciare dagli Stati Uniti, perché le tragedie degli ebrei, anche trasferiti in Medio Oriente, rimandano sempre, per ovvi motivi, a noi europei.
L’argomento di fondo di chi difende gli omicidi mirati, oltre alla inevitabile affermazione, implicita o esplicita, della propria eccezionalità -noi siamo di natura diversa da tutti coloro che ci combattono- è che gli omicidi mirati fanno molti meno morti di una guerra, e uccidono i soli obbiettivi. Inoltre cancellano direttamente, immediatamente, l’ostacolo che sbarrava il cammino dei mandanti degli assassini. In realtà il numero di morti non programmati negli omicidi mirati è alto; nel caso di Israele forse pari a quello dei morti programmati, ma certo è minore dei caduti in una guerra, anche minima. Qualche volta il ricorso agli omicidi dipende dal fanatismo religioso di chi li programma ed esegue. Ci sono fanatici cristiani, islamici, israeliti.
Natasha Roth-Rowland, collaboratrice di +982, ha scritto il 2 gennaio 2020, a proposito di Yitzchak Ginsburgh, un estremista religioso israelitico, autore di un centinaio di libri in ebraico e di qualche decina in inglese: “Al centro dell’ideologia di Ginsburgh ci sono l’accettabilità e la moralità della violenza ebraica contro i non ebrei. Come ha scritto il docente di religione israeliano Motti Inbari, sottesa a ciò c’è la sua concezione dei non ebrei come di fatto ‘subumani’ -implicando che il comandamento ‘non uccidere’, che riguarda gli esseri umani, si applichi solo agli ebrei”. Ho trovato che in due sentenze, del 2005 e del 2006, la Corte Suprema di Israele ha ritenuto legittimi gli omicidi mirati a certe condizioni, tra cui l’evitare un eccesso di morti indesiderate.
Dal mio punto di vista, la natura degli omicidi in Israele cambia molto tra quando li commettevano, contro la potenza mandataria, immigrati russi in fuga e quando li commette uno stato sovrano molto potente, contro persone che lo ostacolano o per punire vecchie colpe. Infatti non tutti gli ex-nazisti uccisi hanno avuto, come Eichman, il privilegio di un processo prima di essere uccisi. Forse tutti gli omicidi mirati sono fondati sulla natura subumana dell’ucciso, sul considerarlo un ostacolo materiale da rimuovere, non un uomo.
L’accettazione degli omicidi mirati, o almeno di alcuni, in Israele è fondata anche sul giudizio del Presidente della Corte Suprema Aharon Barak: “Una democrazia deve battersi con una mano legata dietro la schiena”, rispettando il diritto, ivi compreso quello internazionale. Ma la pratica degli “omicidi mirati” deve essere valutata, sul piano giuridico, caso per caso.
Aharon Barak fece tuttavia una chiara allusione, in occasione di questa decisione della Corte, al “caso Shahada”, sospeso nel marzo del 2004 a causa dell’esame della politica degli “omicidi mirati”, affermando che, se si fosse potuto prevedere che un alto numero di civili sarebbe stato ucciso nell’operazione, l'atto sarebbe stato illegale. Nel caso di Soleimani non ho letto neppure un accenno alla liceità o illiceità del suo omicidio, per non parlare di quello dell’autista e degli altri che non sono tornati a casa quella sera.
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