Stephen Eric Bronner è Distinguished Professor Emeritus nel Board of Governors alla Rutgers University e Co-Direttore del l’International Council for Diplomacy and Dialogue. Il suo ultimo libro è The Sovereign.

Per trasparenza dichiaro subito che: sono un ebreo di origine tedesca, non sono mai stato sionista, e nemmeno mi sono trattenuto dal criticare le politiche israeliane. Provo la più grande compassione per il popolo palestinese, ma sono anche nettamente critico della sua classe dirigente e delle scelte politiche di quest’ultima.
Quarantamila palestinesi sono appena diventati “sfollati interni” nel proprio paese, e gli insediamenti israeliani hanno invaso il loro territorio. Tuttavia continuo a non ritenere la soluzione a “uno stato” realistica. Ormai va di moda definire quest’ultima come “l’unica” soluzione, ma sembra che chiunque, parlandone, eviti di specificare quali istituzioni sarebbero necessarie, quali le specifiche politiche da adottare per gestire problemi complessi come il “diritto al ritorno”, e quali le idee da mettere in campo per gestire le maggioranze di entrambe le parti che, comprensibilmente, diffidano l'una dell’altra e serbano profondi risentimenti che hanno radici nella Storia.
È per questo che dovrebbero svolgersi negoziazioni formali tra le organizzazioni della società civile di Israele e Palestina, magari prendendo a modello l’Accordo di Ginevra del 2003, non fosse altro per far sì che i politici di entrambe le parti possano vedere ciò che “il popolo” vuole davvero. Israele e Palestina sono due nazioni con due culture e due storie molto differenti: l'una del colonizzatore, l’altra del colonizzato. In un mondo avverso a comprendere la logica degli eventi, il pensatore turco-ebreo Albert Memmi avrebbe molto da insegnare. Il suo ricorso al concetto del “complesso di Nerone” spiega bene come i colonizzatori si impossessano di una terra, fieri di esportarvi i benefici della “civiltà”, mentre il colonizzato resiste a tale benevolenza. Nel reprimere la resistenza, il “civile” colonizzatore prova un senso di colpa inconscio e un sentimento di risentimento per l’ingratitudine del colonizzato. L'idea di una “necessità” della violenza sembra alleviare questo senso di colpa. Pertanto, a ogni successivo atto di ribellione del colonizzato, la repressione del colonizzatore va intensificandosi, portando a un corrispettivo intensificarsi della resistenza del colonizzato -e così via.
Questo è ciò che vediamo nel conflitto israelo-palestinese.
I pogrom e i campi di concentramento del passato ebraico, come avrebbe detto Karl Marx, “pesano come un incubo nel cervello dei vivi”. Gli israeliani si sentono ancora vittime e molti di loro non si capacitano del rifiuto da parte dei palestinesi di riconoscere le innovazioni apportate dai coloni ebrei a quelle che presumono fossero delle “tribù nomadiche”. Di qui il vecchio slogan sionista: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Il miscuglio di senso di colpa e risentimento si manifesta nella combinazione tra le occasionali azioni umanitarie di Israele e la brutalità disumana dei suoi attacchi militari.
Ad ogni modo, in questo ciclo di violenza, sostenuta dai quattro miliardi di dollari l’anno provenienti dagli Stati Uniti, Israele si è trasformata nella potenza egemonica della regione. Ma il complesso di Nerone ne ha completamente devastato il capitale morale. Non c'è più il “manipolo di eroi” immortalato in opere partigiane come il romanzo di Leon Uris, Exodus, o il suo adattamento filmico.
Se da un lato Israele detiene una soverchiante potenza militare, per quanto ostracizzata dalla comunità globale, dall’altro la sovranità palestinese è stata riconosciuta per via diplomatica, anche se il suo popolo è stato ridotto in stato di supplica. In questa contraddittoria situazione, la politica palestinese aveva creduto che la pressione della comunità globale in un qualche modo avrebbe cambiato le prospettive dei politici israeliani. Un auspicio malposto in quanto ignora la percezione degli israeliani come di un popolo vittima dell’indifferenza del mondo e del suo antisemitismo. A loro volta, gli “Accordi di Abramo” di Donald Trump hanno erroneamente presunto che i palestinesi non avessero più alcuna rilevanza, e che avessero rinunciato alla propria causa.
La storia però ci insegna che certi conflitti non svaniscono così, semplicemente, nel nulla. La sfacciata politica filo-israeliana di Trump, e la sua cecità al dramma palestine ...[continua]

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