Vi parlerò in particolare del periodo che va dal 1938 al 1943, periodo che comincia con l’emanazione delle leggi antiebraiche e si conclude con la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre, cioè la fase precedente alle deportazioni. È un periodo che è stato studiato assai poco, anche perché è sempre risultato schiacciato da quanto è successo dopo, soprattutto nella memoria dei sopravvissuti. Evidentemente l’enorme rilevanza e la gravità di quello che è successo dopo il ’43 ha fatto sì che quanto è accaduto tra il ’38 e il ’43 sia diventato meno importante. Eppure credo sia interessante cercare di capire che cosa è successo dal momento in cui sono state emanate le leggi razziali fino all’armistizio dell’8 settembre: infatti vale la pena chiedersi quanto le leggi razziali e la loro applicazione, in quel periodo non proprio breve -si tratta di ben cinque anni- possano aver preparato quanto è successo dopo, in particolare le deportazioni. Non credo vi sia un nesso necessario tra le leggi razziali e le deportazioni. Non è che le leggi razziali siano state emanate in funzione delle deportazioni; né, d’altra parte, credo vi sia un nesso necessario tra l’avvento del fascismo e l’emanazione di leggi razziali, non è che il fascismo dovesse necessariamente portare a quelle; credo però che ci sia un rapporto molto stretto sia tra fascismo e leggi razziali, sia tra leggi razziali e deportazioni, ed è proprio questo rapporto che, a mio avviso, va studiato a fondo, anche perché le ricerche sul campo sono soltanto all’inizio. Quello che qui vi propongo è semplicemente un indice di problemi e di terreni di ricerca -cercando anche di entrare un poco nel merito- che vale la pena percorrere, nel tentativo di andare più a fondo di quanto fino adesso non si sia andati. Credo che la prima questione da studiare sia proprio il momento dell’emanazione delle leggi, ossia quanto succede nel 1938. Le leggi razziali rappresentano una svolta repentina, improvvisa, in gran parte imprevista, anche dal punto di vista, in particolare, di chi quelle leggi doveva subire. In realtà si tratta di un avvenimento che aveva delle profonde radici nella storia precedente del fascismo. È appunto di quelle radici che bisogna parlare, bisogna cercare di individuare quelle radici. Le leggi razziali sono state emanate in ragione, innanzitutto, dell’avvicinamento dell’Italia alla Germania, dell’influenza crescente del nazismo sulla politica di Mussolini, e anche in ragione del clima generale che si stava manifestando in giro per l’Europa; un clima sempre più irrespirabile per il mondo ebraico nei vari paesi dell’Europa occidentale e, a maggior ragione, dell’Europa orientale. Quindi c’è questo primo dato rilevante: il sempre più stretto rapporto tra l’Italia e la Germania e la crescente influenza di Hitler su Mussolini. C’è però un secondo elemento importante che riguarda la politica coloniale del fascismo, cioè il fatto che, negli anni immediatamente precedenti il 1938, Mussolini si era lanciato nell’avventura imperialista, coloniale e aveva sviluppato un proprio specifico razzismo in ragione della volontà di prendere possesso dell’Etiopia e soprattutto nel tentativo di combattere il cosiddetto meticciato, cioè la mescolanza delle razze -così veniva definito dal fascismo- e in particolare la mescolanza della razza italiana con quella africana. Un terzo elemento importante riguarda le aspirazioni sempre più totalitarie del regime nella seconda metà degli anni Trenta; la politica razziale del fascismo si inquadra perfettamente in questo ambito. Un ultimo elemento importante, che interviene a favorire il processo che porterà poi all’emanazione delle leggi razziali, riguarda il progressivo allontanamento del fascismo dal sionismo internazionale e la scelta, in funzione antinglese, sempre più filoaraba del regime italiano nell’ambito della propria politica mediterranea. Tutti questi elementi, che hanno profonde radici nelle caratteristiche specifiche del regime fascista, conducono all’emanazione delle leggi razziali. Si può quindi vedere assai bene come, da un lato, le leggi razziali rappresentino una svolta, una decisione relativamente improvvisa, da parte di Mussolini e dei gerarchi fascisti, ma, nello stesso tempo, esista un rapporto molto stretto tra quella scelta e i connotati del fascismo, così come si vengono a definire nel corso degli anni Trenta. È questo un primo terreno di indagine che in parte è già stato arato, ma su cui indubbiamente si possono fare altri passi. Un secondo terreno di ricerca riguarda le modalità attraverso cui le leggi razziali sono state applicate nel corso di un periodo, dal ’38 al ’43, che, ripeto, non è un periodo breve, è un periodo relativamente lungo. Credo che la politica razziale del fascismo possa essere definita come una politica voluta dall’alto, venutasi a realizzare a partire da una spinta molto forte del vertice del regime, una politica che aveva come obiettivo quello di coinvolgere il più possibile l’insieme della società nell’attacco agli ebrei, nel processo di progressiva emarginazione del gruppo ebraico dall’insieme della società. Consideriamo alcuni aspetti particolari di questo processo di progressiva applicazione della legislazione razziale: innanzitutto il grande sforzo messo in campo dal regime nel tentativo di identificare gli ebrei. Non era facile capire chi fosse ebreo e chi non lo fosse, chi fosse da assoggettare a un regime restrittivo e chi non dovesse esserlo. Il regime mette in campo uno sforzo consistente, a partire dal censimento del 22 agosto del 1938, che è precedente alle leggi che verranno emanate a partire dal novembre; e questo grande forzo, teso all’identificazione degli ebrei, implica la collaborazione di moltissima gente, di moltissimi impiegati dei più diversi uffici dei comuni, delle prefetture, della questura; implica anche uno sforzo teso ad alimentare un clima generale di sospetto che rappresentava il primo passo nella prospettiva di creare intorno agli ebrei un vuoto sempre più difficile da sopportare. C’è dunque questo primo passaggio, ma c’è poi una serie molto numerosa di altri passaggi importanti: innanzitutto la progressiva espulsione degli ebrei dall’amministrazione pubblica; sappiamo bene qual è il peso in Italia dell’amministrazione pubblica, quanti sono gli impiegati dello stato e quindi quanti sono coloro i quali, come colleghi, come funzionari, venivano coinvolti nel processo di individuazione e poi in quello concreto di espulsione, di cacciata, degli ebrei dai più diversi ambiti dello stato. Quindi una grande massa di persone è stata coinvolta. E badate bene, negli archivi degli enti pubblici, in ogni archivio di qualsiasi ente pubblico, c’è un capitolo “ebrei”, perché in ogni ufficio pubblico si è trattato di individuare e di cacciare gli ebrei che facevano parte dell’amministrazione dello stato, dell’esercito e così via. Un altro aspetto importante riguarda l’espulsione degli ebrei dalla scuola e qui l’obiettivo del regime era evidentemente quello di influenzare molto direttamente l’ambiente della cultura, ma anche, soprattutto, di condizionare il mondo dei giovani in funzione antiebraica. Ancora un altro aspetto importante -ce ne sarebbero ancora numerosi a cui non riuscirò ad accennare- riguarda l’attacco alle attività economiche ebraiche, i licenziamenti degli ebrei da numerose aziende oltre che pubbliche anche private, e l’attacco diretto alle proprietà degli ebrei: gli ebrei non potevano possedere più di un certo valore, per esempio nel campo immobiliare. Anche qui si mette in moto un processo, più lento, ma comunque estremamente significativo, che va avanti nel corso degli anni in modo sempre più radicale, teso a espropriare gli ebrei di una parte consistente dei loro patrimoni. A che cosa conducono tutte queste azioni, che si concentrano in un’unica direzione? Conducono al progressivo impoverimento degli ebrei, a una riduzione progressiva delle risorse su cui potevano contare e, su un altro versante, a un isolamento progressivo di ogni singolo ebreo nel rapporto con la società che gli stava intorno. Tutto questo rappresenta un ambito di ricerca estremamente importante che ci consente di capire con più precisione che cosa è successo tra il ’38 e il ’43. Un altro ambito di ricerca riguarda invece le reazioni da parte degli ebrei di fronte all’attacco che progressivamente veniva scatenato contro di loro. Anche qui gli studi sono soltanto all’inizio. C’è da sottolineare, in una prima fase, un atteggiamento di generale incredulità da parte di una gran parte degli ebrei, non di tutti, una oscillazione continua tra un atteggiamento di incredulità e vari gradi di percezione, di consapevolezza del pericolo. C’è da ricordare che gran parte del mondo ebraico, come, d’altra parte, gran parte della società italiana, era composto di fascisti o comunque di persone che avevano accettato nei fatti l’esistenza del regime; immaginate che cosa poteva voler dire, per tutti costoro, scoprire improvvisamente che il regime aveva deciso di emanare una serie di norme tese ad espellerli progressivamente dal loro ambiente di lavoro, a isolarli dal resto della società. Via via che passa il tempo le cose cambiano, si mette in moto una serie di iniziative da parte di famiglie, di singoli, di gruppi, tese a contrastare quanto il regime stava cercando di realizzare. Ci sono tentativi di eludere la normativa antiebraica, anche se non era così facile, soprattutto nella prima fase, quando la spinta all’applicazione delle leggi era molto forte. Ci sono varie forme di contrattazione con l’amministrazione pubblica, ci sono tentativi di corrompere i funzionari per non subire le conseguenze più negative di quella normativa, c’è una forte spinta all’emigrazione e ci sono numerosissimi tentativi tesi a far sì che gli ebrei potessero mimetizzarsi nella società, cercando varie forme di solidarietà e cercando soprattutto di evitare di essere individuati da parte delle istituzioni. Vorrei sottolineare come, per chiunque dovesse subire i rigori della legge, fosse estremamente difficile riuscire a valutare l’entità dei rischi che si presentavano. Cito un esempio, a mio avviso molto significativo, che si riferisce al periodo tra il ’43 e il ’45. Ancora nel ’44, a Vercelli e a Biella, il 50% degli ebrei che possedevano una cassetta di sicurezza -dal ’43 viene emanata una normativa che impone l’apertura forzata delle cassette di sicurezza- non l’aveva ancora svuotata. Questo vi dà l’idea di come fosse difficile, per chi subiva la normativa antiebraica, riuscire a percepire l’entità del rischio che si stava correndo. Un penultimo terreno di ricerca, che però a mio avviso è di grande rilevanza, riguarda l’atteggiamento dei non ebrei nei confronti delle leggi razziali. In proposito vi propongo qui un’ipotesi di lavoro, un’ipotesi che credo possa essere suffragata dalle ricerche che ci saranno. Si tratta di un problema controverso, ma penso che si possa individuare chiaramente una fase iniziale caratterizzata da una sostanziale acquiescenza da parte della generalità della popolazione nei confronti delle leggi antiebraiche: ci furono ovviamente piccole forme di opposizione, ci fu una serie di persone che cominciò a distaccarsi dal fascismo proprio in ragione dei provvedimenti antiebraici, ma, nell’insieme, possiamo affermare che la società italiana all’inizio non reagì e si dimostrò sostanzialmente acquiescente. C’è poi, in una seconda fase -credo che il fenomeno si manifestasse soprattutto a partire dall’entrata in guerra dell’Italia, dal 1940 in avanti- una progressiva crescita della solidarietà intorno agli ebrei, in ragione, innanzitutto, dell’aggravarsi della loro condizione, ma anche, e credo che questo sia l’aspetto principale, per il progressivo distacco della popolazione dal regime che stava disgregandosi. Un ultimo aspetto, e con questo concludo, riguarda la svolta del 1943. Su questo non mi soffermerò a lungo. Quello che vorrei sottolineare è che dal ’43 in avanti, ovviamente, la condizione degli ebrei cambia radicalmente. La presenza dei tedeschi è una presenza minacciosa, i tedeschi puntano direttamente alla deportazione, però, contemporaneamente, si assiste a un aggravarsi progressivo della legislazione antiebraica emanata dalla Repubblica Sociale (mi riferisco ovviamente al territorio della Repubblica Sociale Italiana e non a quello dell’Italia meridionale, dell’Italia liberata, dove, peraltro, malgrado l’arrivo degli alleati, i provvedimenti antiebraici vengono aboliti con estrema lentezza, e anche questo dato è estremamente significativo). Tutto ciò significa che il rapporto tra gli italiani e i tedeschi dal ’43 in avanti è estremamente complesso, perché da un lato c’è l’iniziativa diretta, esplicita, da parte dei tedeschi, finalizzata alla deportazione, dall’altro c’è però un’iniziativa specifica, autonoma dell’amministrazione della Repubblica Sociale che continua a fare quello che si è fatto prima, ma in forma molto più grave, e c’è, in terzo luogo, una collaborazione esplicita degli italiani con i tedeschi, un appoggio diretto, in prima persona, di vari ambiti delle istituzioni rimaste ancora in piedi per favorire le iniziative dei tedeschi tese alla deportazione. In definitiva, risulta molto chiaramente come, nel periodo tra il ’43 e il ’45, la burocrazia italiana agisce come se si fosse progressivamente allenata nei cinque anni precedenti. A questo bisogna aggiungere gli effetti del progressivo isolamento che gli ebrei avevano subìto nel corso del quinquennio precedente tali da renderli particolarmente vulnerabili ai nuovi attacchi perpetrati contro di loro dal ’43 in avanti.