Francesco Longo è professore associato del Dipartimento di social and political sciences presso l’Università Bocconi e direttore di Oasi, l’Osservatorio del Cergas Bocconi (Centro di ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale). La relazione che segue è stata raccolta venerdì 17 novembre, presso il XXX Congresso nazionale Società Italiana di Cure Palliative che si è tenuto a Riccione nel novembre 2023, nell’ambito della sessione “Welfare di Comunità: quando si muore, si muore soli? Esperienze nella costruzione di reti sociali”

Buon pomeriggio a tutti, propongo un intervento a quattro step logici: uno, a cosa ci serve il community building, il lavorare sulla comunità. Due, come si costruiscono, come si identificano e quali sono i perimetri delle reti sociali. Tre, come possiamo valorizzare queste reti. Quattro, con quali logiche e strumenti dobbiamo approcciare questo terreno di lavoro qualora lo volessimo percorrere.
Allora, inizio con una prima riflessione: perché il lavoro di community building è così intenso? Perché il nostro, a prescindere dal fatto che abbia pochi o tanti soldi,
è un welfare fondamentalmente prestazionale a domanda individuale, per cui, per esempio, porto il pasto a domicilio alla persona che ne ha fatto domanda.
Il fatto è che oggi la maggior parte dei problemi che abbiamo, quelli emergenti, non richiedono una risposta né prestazionale né a domanda individuale.
Faccio tre esempi. Primo esempio: il 47% di italiani divorziano, quasi uno su due, quindi ci sono un sacco di madri e padri, più padri che madri, che ogni due weekend devono stare con un figlio che conoscono e frequentano poco, spesso magari anche lontano da casa e non sanno bene cosa fare. Vanno al cinema e poi a McDonald’s, sono passate due ore e mezzo e c’è ancora un’intera giornata davanti.
È chiaro che se fossero in un ambiente dove ci sono altri genitori con bambini, dove si possa passare il tempo in maniera intelligente insieme, la situazione sarebbe diversa.
Secondo esempio, il 33% delle famiglie italiane sono fatte da una persona sola. Ebbene, ai problemi di solitudine non si risponde certo con servizio a domanda individuale di tipo prestazionale, si risolve mettendo insieme le solitudini. Quindi due problemi diventano una potenziale soluzione.
Faccio un terzo esempio. Noi in Europa siamo il secondo peggior paese per mancanza di mobilità sociale. Peggio di noi ci sono solo gli inglesi. Questo vuol dire che noi alla nascita sappiamo già che titolo di studio avrà quel bambino: esattamente quello dei suoi genitori. Anzi stiamo andando indietro anno su anno. C’è un momento topico nella vita dei ragazzini: in terza media, a 13 anni, viene deciso il nostro destino, a seconda che si scelga di andare al liceo (la scelta che fanno i figli dei ricchi), all’istituto tecnico (la classe media) o all’istituto professionale, dove ci vanno in media il 25% dei ragazzi con background migratorio. Da quel momento in poi i sentieri si dividono.
Addirittura registriamo questa cosa dolorosissima, per cui le società sportive di oggi sono assolutamente segreganti, perché i quattrocento euro all’anno per far giocare il proprio figlio a calcio, a pallavolo o basket, la famiglia immigrata con tre figli (quindi milleduecento euro, più o meno lo stipendio di un mese del marito), non ce li ha. Siamo nel paradosso per cui oggi i figli dei ricchi giocano meglio a basket e a calcio dei figli dei poveri, che è assolutamente l’opposto di quello che succedeva cinquant’anni fa!
Nessuno si pone il problema che noi dobbiamo usare le piattaforme sportive come meccanismo di ricomposizione sociale. Prendiamo gli stessi scout; spesso provocatoriamente chiedo: quali sono gli strati sociali che frequentano gli scout, che è un ambiente nobilissimo, spesso di estrazione religiosa? La risposta è: in gran parte i figli della borghesia. Quindi i nostri luoghi di aggregazione sono diventati luoghi di segregazione.
In conclusione, nel paese con meno mobilità sociale in Europa dopo l’Inghilterra noi abbiamo grandi solitudini e luoghi di aggregazione che di fatto segregano.
Ebbene, se, come è evidente, il welfare prestazionale non può rispondere a questi bisogni, è necessario e urgente ricreare aggregazioni, ricreare comunità.
Ma del resto, se ci pensate, a cosa serve lo Stato? Lo Stato non serve per erogare servizi, lo Stato serve per creare società, comunità; creare servizi è strumentale a creare la comunità, ma il fine ultimo è quello. Invece, un eccesso di consumismo ci ha portato a misurare lo Stato sulla sua efficienza produttiva: quando siamo utenti di trasporto pubblico, da consumatori siamo interessati a che il mezzo sia puntuale, pulito e veloce; abbiamo totalmente perso questa dimensione per cui lo Stato serve prima di tutto a fare comunità. Eppure, piano piano, stiamo riscoprendo che la maggior parte dei problemi sociali che dobbiamo fronteggiare, la solitudine, l’isolamento delle famiglie, la mancanza di mobilità sociale, li possiamo affrontare solo se ricreiamo comunità.
Il paradosso è che mentre il welfare prestazionale, a domanda individuale, è poco attento a creare comunità, tutte le moderne imprese, la prima cosa che fanno, è promettere di fare una comunità! Se io vado su Airbnb, BlaBlaCar o TooGoodToGo, le più famose piattaforme che ci sono al mondo, la prima cosa che dicono è: noi abbiamo generato una comunità.
Se vogliamo, ha quasi dell’incredibile che l’impresa faccia della creazione di comunità uno dei propri fini; d’altra parte è il segno della consapevolezza che in questo modo le persone tendono a rimanere fedeli a quell’ecosistema (e cioè a comprare i loro servizi), mentre l’azione pubblica, che è nata per fare comunità, si è concentrata ultimamente sempre più su logiche prestazionali.
Questo mi porta a un ulteriore ragionamento e a una domanda: cos’è oggi la comunità? Quali sono i perimetri, anche identitari, intorno ai quale si riconoscono le reti sociali? A questo proposito c’è una rivoluzione in corso, perché il nostro perimetro è sempre meno legato a una vicinanza fisica, a un territorio.
La nostra comunità non sono più i nostri vicini di casa, non sono gli abitanti del nostro quartiere; i vettori di integrazione sociale sono altri. È la comunità degli amanti dell’Harley Davidson o degli amici del fungo o ancora dei genitori che hanno i figli nella stessa scuola e magari abitano da tutt’altra parte, è la comunità omosessuale o quella etnica...
E quindi noi, da questo punto di vista, ci troviamo a scoprire che in molte parti del nostro paese, meno magari nelle aree interne, la parola comunità non è più legata a un territorio, ma è legata ad altri vettori di integrazione.
Ma noi dobbiamo valorizzare questi altri vettori di integrazione. Come si fa?
Qui mi sembra che l’ambizione, da parte dell’azione del welfare pubblico o di chi rappresenta il terzo settore e svolge una funzione pubblica, debba essere quella di costruire una relazione con queste reti sociali, che sia equilibrata nel gioco tra contributi e ricompense. Si tratta di riconoscere una rete sociale, un gruppo etnico, piuttosto che i genitori di una scuola o il gruppo del Cai e con quel gruppo costruire una relazione dove contributi e ricompense siano equamente distribuiti.
Posso chiedere, ad esempio, agli amici del Cai di frequentare una volta a settimana una Rsa, per portare prossimità e vicinanza agli ospiti. In cambio, grazie ad azioni di accreditamento, di branding istituzionale del lavoro che stanno facendo, faccio in modo che il Cai possa aumentare i propri associati, o posso proporre ai soci del Cai: “Perché non fare i vostri incontri dentro l’Rsa anziché in una stanzetta da qualche parte?”.
Ora, questo gioco tra contributi e ricompense per chi lo agisce è un lavoro vero e proprio, che ha delle tappe precise.
Intanto occorre disegnare il perimetro di questa rete sociale: chi sono queste persone, che tipo di missione sociale agiscono, che tipo di imprinting culturale hanno?
La seconda cosa che devo fare, se voglio lavorare con la rete sociale, è capire che tipo di rete abbiamo di fronte. Ci sono reti molto verticali, con un capo. A Roma, dopo il secondo lockdown, gli abitanti del Bangladesh, che hanno assunto un ruolo importante perché trattano i giardini, fanno gli ambulanti, erano andati via a migliaia e poi sono tornati. Bisognava vaccinarli. L’Asl ha mandato qualche migliaio di lettere, ma non si è presentato nessuno. Poi qualcuno ha spiegato loro che dovevano andare a parlare con il signor Tizio. L’Asl è andata a parlare con il signor Tizio e il giorno dopo si sono presentati in 30.000 a vaccinarsi. Ecco, quella è una comunità verticale. Ci sono poi comunità che invece sono orizzontali e a quel punto devo attivare giochi di tipo partecipativo. Quindi io devo capire prima di tutto come sono fatte queste comunità che hanno culture e dinamiche interne molto diverse.
In secondo luogo devo capire che tipo di valore possono portare a un bisogno sociale e che tipo di valore io posso portare al loro mondo per costruire questo rapporto mutuamente benefico, su cui bisogna poi disporre delle risorse. Attenzione, spesso non sono risorse economiche quelle che le comunità cercano. Le comunità cercano il riconoscimento istituzionale: vogliono sentirsi importanti, vogliono essere celebrate per l’elemento identitario o per il contributo sociale che danno.
Poi magari vogliono delle cose molto semplici, dello spazio fisico dove potersi trovare, piuttosto che il sostegno e elaborare una propria app, in modo tale che la comunità abbia uno strumento digitale di connessione più efficace. Si tratta di saper lavorare su queste cose.
Il lavoro in comunità non è scrivere un documento, è stare in mezzo alle persone, vivere con loro, capire che esigenze hanno, capire che cosa possono fare. E vi garantisco che l’esperienza di chiunque abbia fatto lavoro di comunità è che quando una comunità riesce a produrre più valore sociale, quando le facciamo fare qualcosa di utile, la comunità è straordinariamente contenta. Soprattutto se questa cosa poi viene resa esplicita e visibile.
Voglio fare due o tre esempi molto semplici, così si capisce di cosa sto parlando.
Alcuni comuni, anche a livello internazionale, hanno mappato gli anziani soli, fragili, che sono autonomi in casa ma non all’esterno; hanno mappato i luoghi di aggregazione sociale di queste persone, come i gruppi di lettura in biblioteca, dove ci si incontra in una decina, si commenta insieme un libro letto, si prende un tè e si sta qualche ora insieme, dopodiché si sceglie il libro da leggere per la settimana successiva. Volendo aumentare questi gruppi di lettura per risolvere il problema di solitudine, hanno scoperto che la prima cosa da inventare è il cosiddetto “linker sociale” e la prescrizione sociale. E quindi hanno fatto un accordo con gli mmg, i medici di famiglia, i quali, invece di farmaci, prescrivono la frequentazione di “gruppi di lettura” o dell’università della terza età.
In più hanno individuato dei linker social, che sono coloro che accompagnano per le prime due, tre volte la persona isolata. Perché una persona, se da anni è bloccata in casa, non ci va autonomamente, serve qualcuno che la porti: un vicino o un frequentatore di questi posti che si fa accreditare dal mmg.
Poi c’è il tema del trasporto. Qui cos’hanno inventato? Per esempio una cooperativa del settore che offre il trasporto a pagamento, ma a prezzi calmierati: cinque euro per portarti e cinque euro per riaccompagnarti; se ci vai dieci volte al mese, sono cento euro: possiamo considerarlo il prezzo della libertà, il prezzo della socialità. Quattro quinti degli italiani hanno cento euro per il prezzo della socialità.
È chiaro che questo è un tema di organizzazione, di connessione: bisogna trovare i soli, trovare i luoghi di socializzazione, trovare i linker, creare un sistema di trasporto economicamente sostenibile per chi non riesce più a spostarsi da solo...
Il lavoro in comunità è fatto di strumenti concreti, di azioni concrete. Questo significa che da parte del welfare pubblico probabilmente dobbiamo abbandonare qualche quota di servizi a domanda individuale, prestazionali, magari anche poco, il 5%, per liberare un po’ di risorse e destinarle all’organizzazione di queste reti, che non vanno da sole. Soprattutto all’inizio vanno supportate.
È chiaro che con il 5% noi riusciamo ad affrontare volumi di utenti, di persone, di problemi inimmaginabili rispetto ai servizi a domanda individuale. Badate che la comunità non coincide al 100% con il volontariato, anzi. La comunità funziona quando noi ricreiamo meccanismi di funzionamento ordinari della società.
Vado in un gruppo di lettura perché è un modo per passare il tempo con i miei amici. Intendiamoci, di volontariato più ce n’è e meglio è, però noi non vogliamo generare solo volontariato, noi vogliamo generare società. Questo è un pezzo del cambiamento da fare. La sfida è ricomporre pezzi di comunità, che purtroppo oggi non funziona più da sola.
Chiudo con una nota su una cosa che mi ha colpito molto. Recentemente ho lavorato in molte aree interne; l’obiettivo era quello di mappare i luoghi di socializzazione spontanei che ci sono, il bar, il centro per anziani, la parrocchia, e tutti a dirci: “Ma no, non funzionano più, oramai sono tutti desertificati”. Dobbiamo rifertilizzare questi luoghi, rigenerandoli artificialmente. Ora, se ci riescono quelli di Airbnb, BlaBlaCar, TooGoodToGo, ce la possiamo fare anche noi, visto che abbiamo pure una finalità più alta. Ovvio però che è un lavoro, che peraltro richiede competenze professionali diverse da quelle necessarie a erogare il servizio a domanda individuale, prestazionale.
Oggi si parla molto di comunità compassionevoli. Devo dire che l’esperienza più felice che ho visto, girando un po’ l’Europa a caccia di queste buone pratiche, è stata nell’ambito delle case di riposo olandesi, tedesche e svedesi. Voi sapete che soprattutto in Italia noi oramai abbiamo una speranza di vita in caso di riposo di un anno, poi si muore. Di fatto sono diventati degli hospice geriatrici lunghi questi 280.000 posti letto che abbiamo, perché le famiglie tengono i loro anziani a casa fin tanto che possono e poi...
Sono dei mondi, come sapete, chiusi, isolati, molto tristi anche, perché, essendo oramai divenuti degli hospice geriatrici lunghi, chiaramente sono dei luoghi faticosi. Questo tra l’altro spiega perché le famiglie a loro volta siano incentivate a portarvi i propri congiunti il più tardi possibile.
Ora, in Europa ho incontrato esperienze veramente commoventi, dove è oramai ordinario che i bambini della scuola dell’infanzia piuttosto che della scuola alimentare tutti i lunedì pomeriggio, per due o tre ore, frequentino la casa di riposo, dopodiché al martedì arriva un’altra classe e al mercoledì ne arriva un’altra ancora, trasformando quell’ambiente in un luogo vitale. A vedere la scena del bambino che cercava un nonno o una nonna (che magari lui non ha o è lontano) e questi nonni che si contengono i bambini cercando di regalare loro più caramelle possibili... quelli improvvisamente diventano davvero luoghi di vita, e questo semplicemente grazie a una relazione naturale.
Se ci pensate un attimo: questa ansia che noi abbiamo di segmentare dentro dei muri, per fasce d’età, addirittura prevedendo il divieto, in alcuni posti, che possano entrare contemporaneamente un anziano e un bambino, perché è fuorilegge, beh, siamo proprio nella direzione sbagliata.
Un’ultima esperienza che mi ha colpito tantissimo, in questa direzione della ricomposizione sociale. Voi sapete che da noi ormai è vietato portare la torta della nonna a scuola, è reato; è un simbolo fortissimo: ci viene detto che, per legge, non dobbiamo più fidarci nessuno!
È la distruzione della comunità e del capitale sociale, per legge. Ebbene, io sono andato in un asilo tedesco dove il primo criterio per essere presi non è essere due lavoratori, bensì due giovani in formazione; se uno dei due genitori è in formazione è più facile che vengano presi i bambini: siamo in un altro pianeta! Non solo, c’è l’obbligo, una volta al mese, di andare a cucinare dentro la scuola dell’infanzia, portando il cibo da casa, dopodiché si sta lì assieme ai bambini a mangiare.
Quindi arriva la nonna turca, assieme alla mamma, che cucina e sta lì a mangiare con i bambini. Ovviamente la nonna fa il cibo più buono che conosca, ci mancherebbe! Il bambino torna a casa e dice: “Mamma, ma sai che oggi abbiamo mangiato turco, era eccezionale”. Devo dire che quello che a me ha colpito di più è stata proprio questa idea di ricreare fiducia, di ricreare società. Voi sapete che non c’è niente di più fiduciario che mangiare il cibo dell’altro. È anche così che si crea quella comunità dove ci si fida e ci si appassiona all’altro.