“Il caos ha fatto il suo capolavoro”
William Shakespeare, Macbeth

L’antisemitismo ha avuto i suoi corsi e ricorsi, ma il nostro passato ci ha purtroppo insegnato che è sempre latente, e oggi sta pienamente risorgendo. A seguito del 7 ottobre 2023, quando Hamas e la Jihad islamica hanno attaccato Israele massacrando 1.200 persone, perlopiù giovani, e catturandone 250 in ostaggio, Israele ha reagito bombardando a tappeto Gaza, ammazzando 35.000 persone, in maggioranza civili ma con una significativa minoranza di combattenti di Hamas. Oltre un milione di persone vanno incontro a una carestia, e certo non li aiuta essere avvisati degli imminenti attacchi, dato che non hanno un posto dove rifugiarsi. Soprattutto ora, alla luce della misurata reazione israeliana agli attacchi missilistici dell’Iran dello scorso 13 aprile 2024, è chiaro che erano possibili ben altre opzioni strategiche. Le azioni di Israele a Gaza sono state evidentemente sproporzionate e clamorosamente fallimentari. Tanto per cominciare, non hanno prodotto il rilascio degli ostaggi; quelli ancora in vita, indubbiamente, otterranno la libertà ma, altrettanto indubbiamente, in uno scambio comunque sfavorevole a Israele. Hamas non è stato distrutto, e ora c’è Hezbollah, con i suoi 150.000 missili, che attende dietro le quinte il momento per entrare in scena. Il bombardamento di Gaza ha fatto di Israele un paria della comunità internazionale, ha generato un’ondata globale di antisemitismo, degradato i rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa e diviso lo stato di Israele al suo interno.
L’imminente attacco su Rafah non farebbe che peggiorare le cose. Eppure, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu fa coincidere l’interesse nazionale con le mire dei suoi partner di governo ancor più reazionari di lui, identifica la sua base elettorale negli ortodossi e nelle comunità di coloni islamofobici, il tutto perseguendo ancora lo scopo personale di evitarsi la galera, stanti le accuse di corruzione, frode e abuso di fiducia. La strategia di Netanyahu è moralmente e pragmaticamente indifendibile. I coloni e i fanatici ortodossi stanno spianando la strada per l’annessione della Cisgiordania e la distruzione di Gaza, nonché per rendere ancor più improbabile la soluzione a due stati.
Lo sfruttamento del senso di colpa per l’Olocausto per evitare a Israele ogni critica appare sempre più in malafede. Non c’è nulla di inerentemente antisemita nell’indignazione per il dramma dei palestinesi, o nel mettere in discussione un pacchetto di aiuti d’emergenza di 14.3 miliardi di dollari (che si aggiungerebbero ai 40 miliardi promessi a Israele per i prossimi dieci anni), né nelle richieste da parte dei manifestanti che le università cessino i rapporti con le controparti israeliane e di ritirare gli investimenti fatti lì.
Sono opinioni su cui si può discutere. Che siano giuste o sbagliate, sono rivolte alle politiche di un paese e a una leadership tanto corrotta ed egoista quanto quella di Trump e della sua cricca, e non agli “ebrei”. Ciò che è sicuramente illegittimo è il sostegno acritico che tanti manifestanti accordano ad Hamas -come se in qualche modo fosse meritevole di un lasciapassare per le sue politiche retrograde. I manifestanti occidentali chiudono un occhio davanti al conflitto di interesse tra Hamas e i palestinesi a essa soggetti, ignorando il loro disprezzo per le libertà civili, l’odio palese per i componenti la comunità Lgbtq, le aggressioni ai nemici politici interni, il loro insistere sull’esistenza di una cospirazione ebraica, il ricorso ad argomentazioni palesemente antisemite nonché i tentativi di giustificare l’indifendibile massacro che ha scatenato l’attuale crisi.
Il 7 ottobre ha sconvolto il mondo, e il massacro di innocenti, gli stupri, la presa d’ostaggi è stata universalmente condannata -perlomeno al principio. Con gli spietati bombardamenti israeliani su Gaza l’opinione pubblica ha cambiato la propria posizione. All’improvviso non era più importante che fosse stato Hamas a infiammare il conflitto, mettendo intenzionalmente a repentaglio le vite dei suoi sudditi, costruendo ospedali, scuole e simili obiettivi civili sopra i tunnel usati per scopi militari. La strategia di mescolare i soldati con i civili, trasformando questi ultimi in “danni collaterali”, sarà pure servita ai fini dell’organizzazione, ma certo non ha aiutato chi è poi stato costretto a vivere tra le macerie. Forse la leadership di Hamas non aveva previsto la portata di ciò che si sarebbe scatenato, ma dovevano pur sapere che la risposta israeliana sarebbe stata brutale, e se non se lo immaginavano, la loro colpa è ancora maggiore. Comunque sia, la decisione premeditata -perché è stata premeditata- di Hamas di scatenare la ferocia del 7 ottobre ha ottenuto il risultato di costringere i propri cittadini a ciò che le serie poliziesche televisive spesso definiscono “suicidio per mano di poliziotto”.
I sostenitori occidentali di Hamas evitano di parlare di queste cose in pubblico. Si capisce, dato che alla fin fine sono i palestinesi quelli che sono costretti a vivere nell’inferno scatenato dai loro governanti, con Hamas a decidere quale sia il miglior “tasso di cambio” per liberare gli ostaggi, e infine ad assistere impotenti al braccio di ferro per un cessate-il-fuoco che né i leader israeliani né quelli di Hamas vogliono poi davvero. Non sono gli israeliani, ma gli abitanti di Gaza a essere costretti a pagare il prezzo di questa strategia cinica ed egoista. Hamas la considera accettabile; anche se perde sul campo, sta vincendo la battaglia per il consenso dell’opinione pubblica. Dev’essere stata questa la strategia sin dal principio. Certo sarebbe stato illusorio per i capi di Hamas credere che le atrocità del 7 ottobre li avrebbe condotti alla conquista di Israele, ma non era sicuramente sbagliato immaginare che un attacco di quell’entità avrebbe riportato Hamas e la questione palestinese di nuovo sotto i riflettori.
Chiamiamola per quello che è: Hamas si è impegnato in una sensazionale -e fortunata- campagna promozionale che ha fatto ricorso ad atti barbarici per indurre una reazione ancora più brutale. Dal punto di vista della realpolitik, si è trattato di una tattica razionale, e forse anche capace di accendere un conflitto regionale in cui saranno gli altri a combattere sul serio. In termini etici, naturalmente, è tutt’altra faccenda. Più il terrore viene normalizzato come strumento di guerra e usato contro l’oppressore, più, solitamente, torna a perseguitare l’oppresso. I fanatici religiosi e sionisti non sono che il riflesso del pensiero dei loro nemici e, per quel che mi riguarda, il leader di Hamas Ismail Haniyeh e Benjamin Netanyahu si meritano l’un l’altro.
I manifestanti occidentali sono stati per lo più pacifici, ed è una forma di manipolazione della realtà rappresentarne la maggioranza come antisemita e invocare la polizia perché li malmeni. Per quanto riguarda le università, il loro riempirsi la bocca di ipocriti slogan progressisti prostrandosi contemporaneamente dinnanzi alle pressioni politiche della destra non è certo un fatto nuovo per i rettori e gli amministratori degli atenei. Hanno ignorato le possibilità didattiche dell’attuale crisi, un’occasione che gli atenei avrebbero potuto cogliere per organizzare incontri aperti, convegni da remoto e altro ancora. Le amministrazioni avrebbero anche potuto allestire dei consigli studenteschi e di facoltà che stabilissero se questa o quella manifestazione a tutela della libertà di parola stesse venendo strumentalizzata per predicare il genocidio, o quantomeno consigliare sulle conseguenze che comporta il gridare “al fuoco!” in una sala affollata.
Nessun campus universitario può tollerare degli estremisti sionisti che ammettono esplicitamente la possibile morte per fame di un milione di persone, o che ricalcano le posizioni esplicitamente genocidarie di politici israeliani reazionari come Itamar Ben-Gvir. Lo stesso però deve valere per chi urla slogan come “Morte agli ebrei”, o per qualche fessacchiotto di “leader studentesco” della Columbia University che insiste sul fatto che nessun sionista ha il “diritto di vivere”, per poi difendersi affermando di essere stato “citato male” e infine offrire delle mezze scuse. I crimini d’odio contro gli ebrei sono aumentati del 96% e i manifestanti anti-israeliani dovrebbero essere i primi a condannarli senza alcuna condizione, proprio come i “sionisti”, che così fieramente respingono le accuse di islamofobia, dovrebbero essere i primi a denunciare l’estremismo ebraico.
Il fanatismo è sempre stato un pilastro della piattaforma politica di Trump. Una sua vittoria colpirebbe al cuore la democrazia statunitense e produrrebbe un impatto devastante sul mondo. I discorsi pronunciati da alcuni leader musulmani che si oppongono alla rielezione di, come lo chiamano loro, “Genocide Joe”, “Joe il genocida”, nel 2024, in particolar modo in alcuni swing state come Pennsylvania e Michigan, sono settari, irrazionali, e in realtà contrari ai loro stessi interessi; ricordano un po’ quegli estremisti di sinistra che insistevano nel dire “tanto peggio tanto meglio”. In una società pluralista non c’è singolo tema che dovrebbe servire da “prova del nove”, e invece troppi attivisti da entrambe le parti sembrano convinti che questa debba avere la precedenza su tutte le altre battaglie e su tutti i temi. È una prospettiva disarmante. I fanatici sionisti sembrano convinti di star vivendo nel mondo mitologico del film “Exodus” (1960), che aveva provocato il sostegno statunitense per Israele, mentre gli estremisti filo-palestinesi spesso sposano gli ideali romantici anti-imperialisti degli anni Sessanta e si abbandonano a ciò che Theodor Adorno aveva in maniera azzeccata definito “cripto-antisemitismo”.
La confusione regna sovrana. I sostenitori della soluzione a due stati intonano lo slogan “Dal fiume fino al mare, la Palestina sarà libera”. Eppure, tradurre questo slogan in realtà vorrebbe dire far assorbire Israele in un singolo stato palestinese, rendendo, di nuovo, la soluzione a due stati impossibile. Se si volesse prenderli sul serio, i sostenitori della soluzione a stato singolo dovrebbero finalmente spiegarci come possa essere realizzato il loro ideale -intendo, senza far ricorso alla violenza. Sostituire così l’idea tanto in voga della “autonomia non-territoriale” con quella della “auto-determinazione nazionale” suonerà anche bene, ma non aiuta affatto. Questa sostituzione separa l’idea di pace dall’idea di terra, e permette ad arabi ed ebrei di governarsi separatamente. Tuttavia, questo nuovo stato sperimenterebbe immediatamente un deficit di legittimità.
Mancando una sovranità dotata del monopolio della forza, saranno formazioni paramilitari a riempire i vuoti di ciascuna regione “autonoma”, e così la minaccia di nuove violenze permarrà. Né c’è alcuna garanzia che questa sovranità monca sarebbe disponibile o capace di sanzionare soggetti che intendessero privare i diritti di una minoranza, o che riuscisse a difendere le istituzioni democratiche. Aspettarsi che gli ebrei israeliani siano disposti a giocarsi come a carte questa mano sciogliendo il proprio stato per costituirne uno nuovo in cui diventerebbero minoranza, e la cui natura democratica sarebbe incerta, non è solo irrealistico, ma del tutto pericoloso per entrambe le parti. Creare un singolo stato palestinese potrebbe provocare una guerra civile, stavolta non solo tra ebrei e palestinesi, ma tra coloni ortodossi ed ebrei secolarizzati e progressisti da un lato e tra Fatah e Hamas, peraltro già acerrimi nemici, dall’altro.
Nel dogmatismo dei manifestanti di entrambi gli schieramenti è radicata la paura che, in qualche modo, se emergessero critiche interne al movimento si finirebbe con l’aiutare l’altra parte, fornendo così ciò che i comunisti chiamavano “una scusa oggettiva” di cui, al di là delle intenzioni, beneficerebbe il nemico.
Il cinismo esibito da entrambe le leadership in guerra è deleterio e, come primo passo, tutti i manifestanti dovrebbero invocare qualsivoglia tipo di cessate-il-fuoco purché sia immediato, affinché sia fornita qualche forma di sostegno alla cittadinanza di Gaza sotto assedio. Ma nessun cessate-il-fuoco è fine a se stesso. Non farebbe altro che lasciare le cose così come erano il 6 ottobre -e tutta la morte e la distruzione avvenute da quella data sarebbero avvenute invano. Sarebbe anche ingenuo pensare che israeliani e palestinesi non correrebbero a riarmarsi per riorganizzarsi in vista di future battaglie. Per pensare alla ricostruzione di Gaza sono necessarie immaginazione e pragmatismo: forse una Banca nazionale sostenuta dalla Lega Araba per assicurarsi gli investimenti, un team di osservatori internazionali, una zona-cuscinetto tra Israele e Palestina e una situazione di due stati retti da una singola economia. È anche imperativo introdurre una pedagogia culturale critica per gestire ogni forma di odio che erediteremo da questo conflitto. Sarà poi forse il caso di immaginare una soluzione “a tre stati”: Israele, Cisgiordania e Gaza. Ogni nuova idea deve resistere sia all’illusione sia al disincanto e, perché ciò avvenga, serve una dose di chiarezza, che è qualcosa che non ha mai fatto male a nessuno.
(traduzione di Stefano Ignone)