Donald Trump ha vinto le presidenziali del 2016. Può vincere ancora nel 2024? Il futuro sembrava roseo per lui, a seguito della disastrosa performance di Biden nel dibattito dello scorso giugno. Trump si crogiolava nella (falsa) percezione di un’economia in declino; stava raccogliendo ingenti donazioni e guidava con margine tutti i sondaggi, specialmente negli “swing states”. Ma il vento è cambiato una volta che la vice-presidente Kamala Harris ha sostituito il sempre più fragile presidente Biden. Il quale, dopo aver perso il sostegno di alcuni importanti leader di partito, come il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer (New York) e l’ex portavoce alla Camera Nancy Pelosi (California), ha dovuto anche affrontare le divisioni interne sulle politiche statunitensi riguardo il conflitto Israele-Hamas. Sembrava che Biden non potesse far altro che assistere al suo crollo nei sondaggi e, sicuramente, temeva che Trump avrebbe vinto le elezioni.
Ma poi il presidente si è ritirato, e la nuova candidata Kamala Harris è stata accolta con un’incredibile esplosione di entusiasmo e sollievo, così come la sua scelta del vice, Tim Walz, governatore del Minnesota, considerato “uno con i piedi per terra”. Riuscendo anche a evitare una lotta per la candidatura nella Convention democratica, ha potuto contare sull’immediata erogazione di cinquecento milioni di dollari di donazioni (che si aggiungono ai cinquecento milioni già raccolti dal presidente Biden). Il suo background di donna di origini sia afro-americane, sia sud-asiatiche, le rendono una fonte di ispirazione per le minoranze, per i giovani e per le donne. Inoltre, si è presentata come l’erede di tutti i record positivi conseguiti nell’ultimo quadriennio, record mai adeguatamente illustrati dal presidente Biden.
Harris è anche essere riuscita a disorientare la macchina politica di Trump, che ancora pare incapace di sviluppare una strategia vincente per contrastarla. I repubblicani ci appaiono come in balia dell’oceano, mentre tentano invano di resistere al moto ondoso. E nemmeno in questo sono stati sufficientemente capaci: la scelta del vice di Trump, il goffo J. D. Vance, senatore dell’Ohio, sommata alle già note peculiari caratteristiche personali del magnate e ai suoi impacciati attacchi razzisti all’indirizzo di Harris hanno messo tutto il partito repubblicano sulla difensiva. Il gradimento personale della signora Harris è schizzato alle stelle e quella che appariva come una campagna a senso unico si è trasformata in una sfida condotta dai democratici con un margine nazionale che va dal 5 all’8%, con numeri simili anche tra gli elettori “indipendenti”. Questi numeri non fanno che rispecchiare la spinta che le ha conferito una convention democratica andata magnificamente.
Ciononostante, non dimentichiamo che il problema non è mai stato il voto popolare: nel 2016, Trump aveva perso di quasi tre milioni di voti, e nel 2020 di quasi cinque. Ancora una volta, saranno gli “swing states” a essere decisivi, e lì è come lanciare una monetina. A complicare ulteriormente le cose sono i candidati terzi, che si stima raccoglieranno circa il 7%. Il più noto tra loro, Robert Kennedy Jr., era pronto a sostenere Harris in cambio di un posto di governo, ma il rifiuto di lei lo ha spinto ad appoggiare il meno schizzinoso Trump. Questo elemento potrebbe rivelarsi ben più importante di quanto sembri: Kennedy potrebbe portare in dote un altro 2%, mentre alcuni candidati indipendenti di sinistra, pur meno noti, come Jill Stein del Green Party e Cornel West, potrebbero sottrarre tra l’1 e il 2% ad Harris. In queste presidenziali, che restano una sfida testa a testa, quei voti potrebbero risultare decisivi. Gli entusiasti della vice-presidente Harris dovrebbero stare attenti a non farsi abbagliare da quel che dicono l’establishment e i media liberal; Harris è ancora in piena “luna di miele” con l’elettorato, ma si sa che la versa campagna comincia il 2 settembre, dopo la festività del “Labor Day”.
Proprio a settembre, il 10, Harris e Trump si sfideranno in un dibattito, e ci si aspetta molto dalle doti oratorie della prima contro il demagogico ex-presidente, che è ancora gravato da un passato scomodo. Il “Washington Post” ha conteggiato in 30.000 le volte in cui l’ex presidente sarebbe stato “beccato” a mentire, mentre era in carica, e da allora questi numeri hanno continuato a crescere. Recentemente, ha perso una causa civile in cui era accusato di abusi sessuali, ...[continua]

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