Com’è potuto succedere? L’ex presidente Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali del 2024 ottenendo il 51% dei voti popolari contro il 48% della vice-presidente Kamala Harris, con un totale di 322 grandi elettori contro 223. I suoi repubblicani -perché sono effettivamente suoi- hanno anche conquistato il Senato, con 52 seggi a 48, e la Camera dei rappresentanti. Per quanto riguarda la Corte suprema, quella è già controllata dai conservatori, inclusi tre giudici nominati direttamente da Trump. La situazione che ne scaturisce non favorirà certo l’esercizio del sistema di pesi e contrappesi. La separazione dei poteri, negli Stati Uniti, è appesa a un filo, e forse lo è anche la democrazia americana.
Ci eravamo preparati a una sconfitta di misura. Il sentimento più diffuso faceva propendere per uno scenario in cui Harris avrebbe vinto il voto popolare, ma perso la sfida dei grandi elettori. Qualcuno di noi immaginava arrivasse una “crisi d’autunno”, magari sotto forma di “emergenza artefatta”, tale da favorire l’ascesa di Trump al potere. Memori del fatto che Clinton lo aveva sconfitto nel voto popolare con un margine di cinque milioni di voti, e che Biden lo aveva surclassato di sette milioni, pochi tra noi avrebbero presagito una vittoria repubblicana con un margine di quattro milioni di voti. Nell’immediato post-ritiro di Biden, avvenuto a seguito della pessima prestazione nel dibattito con il candidato repubblicano, il Partito democratico aveva indicato Harris come nuova concorrente alla sfida presidenziale. Una scelta avvenuta senza primarie e senza alcun dibattito interno al partito. Harris aveva iniziato la sua campagna sulle ali dell’entusiasmo, incamerando nella sola prima settimana milioni di dollari di donazioni, prendendo in mano senza scossoni l’intera macchina elettorale di Biden, attraversando il nostro Paese, sempre più diviso, proponendo un messaggio di speranza e riconciliazione.
Ma, alla fin fine, era praticamente questo tutto ciò che aveva da offrire -eccetto alcune politiche abitative: gli acquirenti di una prima casa avrebbero ricevuto 25.000 dollari di contributo per coprire i mutui, e in più il vice-presidente aveva promesso che avrebbe costruito tre milioni di nuove abitazioni destinate all’affitto e case più economiche. Tutti gli altri punti del programma democratico non hanno fatto che reiterare le promesse che sarebbero potute uscire dalla bocca di qualsivoglia esponente del partito democratico: reintrodurre il diritto all’aborto, bandire i fucili d’assalto, introdurre una tassazione minima per i miliardari, incrementare il tax credit per l’infanzia, e porre un tetto di 35 dollari al prezzo dell’insulina per i diabetici. Aveva anche favorito una legge per regolamentare l’immigrazione, un progetto ereditato da Biden che, inizialmente, era stato sostenuto alla Camera anche dai repubblicani. La legge era stata quasi approvata, quando Trump ha espresso la sua contrarietà, cosa che ha portato a farla evaporare. Il futuro presidente voleva che il tema restasse caldo e che i democratici non si prendessero il merito di aver risolto la questione dell’immigrazione -un piano, a quanto pare, azzeccato.
La vice-presidente Harris è sicuramente brillante, eloquente, sofisticata, di centro-sinistra, una donna di colore con limpide capacità intellettuali; ha trascorsi da procuratrice tutta d’un pezzo e in seguito di senatrice della California, ruolo svolto senza particolari note di merito. Non è possibile dire ora se qualcun altro dei suoi più seri contendenti interni al partito avrebbe potuto ottenere un risultato migliore, né sappiamo se con Biden le cose sarebbero andate tanto peggio. Harris ha mostrato tutta l’empatia possibile verso le famiglie sofferenti per l’inflazione e il costo della vita, ha fatto appelli a continuare a sostenere militarmente l’Ucraina e Israele, si è detta favorevole a sostenere i trattati internazionali sull’emergenza climatica e la Nato e -soprattutto- non ha mancato di sottolineare la minaccia alla democrazia costituita dal suo sfidante.
Ma nulla di tutto ciò è riuscito a raccontare la crisi culturale, politica ed economica che attanaglia gli Stati Uniti. Sì, è probabile che le nostre istituzioni riusciranno a difendersi dalla minaccia di una trasformazione fascista. Ma questo ci è di poco conforto, oggi che le prospettive ci appaiono tanto tetre. La mia generazione è cresciuta con lo spauracchio nazista ben chiaro nella mente. Il processo Eichmann era un ricordo molto fresco, e negli anni Sessanta non c’era manifestazione in cui non venisse esposto un cartello che condannava quella che chiamavamo “AmeriKa”. Noi giovani, allora, impiegavamo indistintamente il termine “fascista” per descrivere qualunque conservatore non ci andasse a genio: Nixon, Ford, Reagan, Bush, eccetera, eccetera. Ma non credo che qualcuno di noi credesse che fossero veramente fascisti.
Con Trump è tutta un’altra storia. Lui è veramente un aspirante fascista, e potrebbe davvero riportarci a ciò che Bertolt Brecht ebbe a definire “un’epoca oscura”. Quanto oscura sarà quest’epoca dipenderà da quanto verrà concesso di fare al futuro presidente -e, per come stanno ora le cose, pare che gli verrà concesso molto. Fanatismo, xenofobia, incoerenza, megalomania, presagi sinistri sul futuro di un’America democratica: sono questi i temi che hanno dominato la campagna repubblicana in ogni tappa del percorso. Trump andava dicendo che difendere la democrazia era meno importante del lottare contro le difficoltà economiche, che la questione dell’aborto era meno urgente del problema dell’immigrazione, che la scienza contava meno rispetto alla fede, e che garantire il pluralismo non valeva certo quanto preservare il pensiero di una cultura in via di erosione -e, a quanto pare, 71 milioni di americani la pensavano come lui.
Trump è veramente fascista? Ha promesso ai suoi seguaci che avrebbe volentieri svolto il ruolo del dittatore, quantomeno per “un solo giorno”. Ha minacciato ritorsioni contro i suoi nemici e ha garantito che avrebbe posto fine ai suoi interminabili problemi legali. Ha persino invitato i suoi elettori a votare almeno in queste elezioni, visto che sarebbero state “le ultime”. Man mano che la campagna elettorale andava avanti, gli attacchi a Harris e ai suoi critici sono diventati sempre più velenosi. Trump e il suo seguito hanno affermato che la vice-presidente era “malvagia”, “perfida”, “ritardata”, “folle”, una prostituta, addirittura l’“anticristo”. La consuetudinaria retorica delle campagne presidenziali ha così lasciato il posto a un vero e proprio terrorismo elettorale, giunto al suo apice nel noto comizio del 27 ottobre 2024 al Madison Square Garden. In quella che è parsa una rievocazione dei disordini provocati dai nazisti americani nel 1939, il discorso di Trump ha infiammato l’odio nei suoi elettori più fanatici, rivolgendosi non solo contro i portoricani e la loro “isola-spazzatura”, ma pressoché contro ogni tipo di minoranza. L’invettiva, in questo, non è stato affatto discriminatoria. Per quanto riguardava, invece, il Partito democratico, la stampa progressista, gli intellettuali e le élites urbane, sono stati tutti etichettati come “nemico interno”.
Naturalmente si trattava di un ribaltamento della realtà. Proprio come aveva definito l’insurrezione del 6 gennaio 2021 “una giornata d’amore”, ha paragonato il comizio al Madison Square Garden a “una festa affettuosa”. A chi credere? La scelta compiuta dai fanatici sostenitori di Trump non ha lasciato spazio al dubbio: hanno dimostrato una creduloneria paragonabile a quella di quanti hanno sostenuto che i suoi guai giudiziari dipendessero da una cospirazione orchestrata dal “deep state”. Ma le prove del suo coinvolgimento nell’insurrezione del 6 gennaio sono apparse innumerevoli volte in tutti i media, così come esistono moltissime fotografie che testimoniano l’esistenza delle famose scatole piene di documenti segreti sottratte illegalmente alla Casa Bianca e lasciate in un bagno di Mar-a-Lago, residenza privata di Trump.
Consiglio la visione dell’eccellente documentario “64 days”, diretto da Nick Quested, che esplora dall’interno la galassia dei gruppi estremisti di destra quali i “Proud boys” e gli “Oath Keepers”. Questi sono i fanatici che hanno gettato benzina sul fuoco dell’insurrezione, ed è incredibile quanto rassomiglino alle Camicie Brune, le Sa naziste degli anni Venti, nella loro forma paramilitare, rivoluzionaria e volgare, nel loro essere prepotenti e inclini alla violenza, ma anche nelle loro origini nel lumpen-proletariat. È interessante notare che i rivoltosi intervistati in “64 days” sembrano quasi indifferenti alla politica: oltre a prendersela con gli immigrati, di fatto, non parlano mai di alcun tema -forse perché non hanno proprio niente da dire.
Pensano con la pancia, non con il cervello. Per loro, votare democratico è un atto di tradimento e tutto il sistema è irrimediabilmente corrotto. Sull’onda di questo estremismo, in ben 12 stati sono sorte petizioni di secessione dall’Unione; il 23% degli americani sostiene questa idea, e ci sono gruppi estremisti paramilitari che stanno discutendo della possibilità di far cominciare una seconda Guerra civile. Una simile intransigenza può aiutarci a spiegare come mai i numeri del sostegno a Trump espresso nei sondaggi non è mai calato nonostante due procedimenti di impeachment, diverse bancarotte, un continuo susseguirsi di scandali sessuali, condanne su 34 capi di imputazione, e pessime performance personali nei confronti diretti con Harris.
Certamente solo pochi dei sostenitori di Trump hanno anche solo sfogliato le mille pagine del report “Project 2025”, il “piano repubblicano” per la “transizione” prodotto dal lavoro di quattrocento studiosi conservatori, 140 dei quali esponenti della passata amministrazione Trump. Sostenuto da cento organizzazioni conservatrici, con a capo la ultra-reazionaria Heritage Foundation, “Project 2025” mira a “istituzionalizzare il trumpismo”. L’ex presidente si è abilmente dissociato dal rapporto, ma certo non ha mai disconosciuto le raccomandazioni che vi sono contenute -dopotutto, è stata la sua gente a stilarle.
“America First!” è il motto di tutto il “Project 2025”. Il nome è un chiaro richiamo al movimento fascista americano degli anni Trenta e riporta alla mente il desiderio di un isolazionismo internazionale volto a portare avanti le cause che stanno a cuore alla destra. Tutto combacia perfettamente con la dichiarata intenzione del futuro presidente di rompere i rapporti con le agenzie internazionali e i trattati che non si confanno all’interesse nazionale -quello prestabilito da lui. Far rispettare l’ “America First!” all’estero significa, logicamente, privilegiare gli americani bianchi e cristiani (i veri americani!) entro i confini nazionali.
In “Project 2025” si fa appello alla necessità di deportazioni di massa degli immigrati “irregolari” e al completamento del muro al confine con il Messico, ma i capitalisti sono ben più interessati ad altri punti programmatici del programma, come i drastici tagli alla spesa per il welfare, la de-regolamentazione dei mercati, le riforme fiscali loro favorevoli e la privatizzazione dei terreni demaniali. La contraddizione è palpabile: i populisti hanno preoccupazioni di natura ideologica e tendono a temere le grandi corporation e a sostenere il welfare state, mentre il mondo del big business minimizza la minaccia dell’iper-nazionalismo e certo non vorrebbe si investisse nella cosa pubblica.
Conferire maggiori poteri al braccio esecutivo del governo potrebbe portare a risolvere simili conflitti d’interesse; d’altro canto, questo approccio calato dall’alto è il cuore del “corporativismo”, che inizialmente Mussolini identificava con il fascismo.
La domanda è: come fare a dare maggiori poteri al Presidente? Le risposte si trovano proprio in “Project 2025”. Si dice, nel documento, che servono leggi che “armino” agenzie quali l’Fbi, l’Nsa (l’agenzia per la sicurezza nazionale) e il Dipartimento di Giustizia; che riducano l’indipendenza politica dell’esercito, che aumentino il controllo sul potere giudiziario, che riducano i diritti civili e l’accesso al voto, che sostituiscano migliaia di dipendenti federali imparziali con lealisti trumpiani, che pongano la Federal Reserve sotto il diretto controllo del Presidente, che vengano aboliti ministeri “liberal” quali il Dipartimento per l’Istruzione, l’Homeland Security e l’Agenzia per la protezione ambientale -e questo è solo l’inizio.
Le elezioni del 2024 erano state presentate dai media come una scelta drammatica tra programmi autoritari ed estremisti da un lato e liberal e istituzionali dall’altra. Ma, a quanto pare, la drammaticità di questa scelta deve essere sfuggita a quel milione e 900 mila elettori che, dopo aver votato Biden nel 2020, non hanno votato Harris nel 2024. Forse si sono sommati un pensiero centrista che la vedeva troppo “di sinistra” su alcuni temi culturali, e uno estremista, quello dei campus, secondo cui era troppo fedele nel suo sostegno a Israele e alla polizia. Aggiungiamo a questo una generica apatia politica, e il risultato è il prezzo salatissimo pagato da Harris in sette swing states, tutti conquistati da Trump.
Nel tentativo di tenere insieme due politiche, quella di classe e quella identitaria, che comportano agende differenti e in conflitto, ai democratici non restava alcuna arma per contrastare “Project 2025”. La scelta, poi, non è mai stata tra due candidati; si è sempre trattato di un referendum su uno di loro: Donald Trump. Ovunque, su tutti i media, si è sempre e solo parlato di lui. I media hanno certo svolto un ruolo importante nell’assicurargli la vittoria. Dopo aver donato cento milioni di dollari alla sua campagna, Elon Musk ha trasformato il suo “X” in un megafono per l’ex presidente. La Fox News di Rupert Murdoch, che conta su un pubblico talmente vasto da far scomparire quello dei suoi rivali, ha continuato senza posa a distorcere le informazioni e a infangare la reputazione di Harris. Aggiungiamoci anche l’Msnbc, che ha impostato le sue scelte editoriali sul tentativo di raggranellare ascolti, e come loro altre emittenti liberal -per non parlare dei blog di estrema destra o dei tanti podcast di cui è piena internet; a Trump, insomma, sono stati regalati miliardi di dollari (letteralmente) di pubblicità gratuita.
I democratici, poi, hanno dovuto assistere con orrore alla defezione di larghe parti della propria base. Indifferenti ai concetti di solidarietà, preoccupati solo di singoli temi, il 45% degli elettori ispanici, il 20% dei neri, il 39% degli asiatici e il 53% delle donne bianche hanno rinunciato alla prima donna nera presidente per votare Trump. Contrariamente alla diffusa opinione popolare, non sono stati gli elettori “indipendenti” a costare la presidenza a Harris, ma grandi gruppi solitamente associati con la sinistra. Il calo della partecipazione degli elettori democratici, combinato con le defezioni del suo elettorato di base e un sostegno inossidabile da parte del 40% dei votanti in favore di Trump: questa è stata l’alleanza che ha fatto la differenza.
Non c’è alcun lato positivo in questa débâcle. Ora anche gli appelli a “continuare a combattere” e i tentativi di offrire messaggi di speranza suonano vuoti e disperati. Adesso, piuttosto, s’impone una sobria riflessione su cosa trarre da quanto accaduto. Dobbiamo smascherare i nostri errori e offrire un approccio diverso, basato su letture differenti. Tanto per cominciare, possiamo dire che abbiamo preso sotto gamba il carisma di questo ipocrita, egoista, corrotto a tutto tondo, ignorante e prono al bullismo. Le battutine, la satira, il disprezzo cinico per Trump ci hanno nascosto una verità evidente: il suo carisma è reale, sta nell’occhio di chi guarda, ed è amorale proprio come il potere. Trump ha offerto una narrazione molto persuasiva per tenere saldo questo suo appeal: un outsider, divenuto presidente nel 2016 contro ogni pronostico, ha offerto ai suoi cittadini quattro anni di pace e prosperità, ma poi il “deep state” gli ha negato un secondo mandato attraverso un’elezione “rubata”; a quel punto, lasciato alla mercé dell’apparato della giustizia, è riuscito come una fenice a risorgere ancora una volta nel 2024 per salvare il Paese dalla devastazione. Senza di lui, il salvatore, non c’era speranza; i propagandisti repubblicani hanno ripetuto ostinatamente le loro profezie di distruzione e oscurità se avesse vinto Harris.
La campagna della vice-presidente non è riuscita a contrastare questa narrazione. Sarebbe servita un’idea di solidarietà di classe, programmi che puntassero agli interessi collettivi dei lavoratori, più che appelli malriusciti a questo o quell’interesse particolare. Il Partito democratico non ha fornito queste idee, forse perché le élites e le sue componenti professionali e manageriali, tanto importanti per il partito, non le volevano. Certo, ora tutto appare elementare: se per i lavoratori le questioni dirimenti sono economiche, e sono proprio i lavoratori a costituire la gran parte degli schieramenti identitari, allora il partito avrebbe dovuto fornire un programma unificante, fondato su un ideale interetnico: quello di classe.
Tradurre questo principio in pratica richiederebbe in prima battuta individuare quali sono gli interessi condivisi dei componenti della classe lavoratrice di ogni formazione identitaria senza privilegiarne una sola, e di lì costituire un programma. Ma questo è impossibile, se si continua a pensare che la classe operaia sia ancora quella, in via di sparizione, del proletariato bianco della grande industria. Questa prospettiva ristretta non fa che trasformare la classe nell’ennesima categoria di interessi definita su base identitaria, e lascia quei lavoratori bianchi dell’industria soli a lottare contro altri pezzi della propria classe e altre formazioni identitarie, per quella che è una disponibilità di risorse sempre più scarsa.
Ora le formazioni identitarie si sono trasformate in categorie di interessi speciali spesso indebolite da divisioni in fazioni. Ciascuno di questi “interessi speciali” dispone di una propria lobby, che lavora per i propri clienti, e sono tutti disposti a tradire gli eventuali partner di un’alleanza. D’altronde, però, è impossibile ignorare questi “interessi speciali”. Si possono tradurre gli ideali di classe in una politica più ampia solo lavorando entro questi gruppi identitari, conservando al contempo legami con il Partito democratico. Non ci sono garanzie sul fatto che gli attivisti alla fine trarranno le giuste conclusioni: è facile, ora, puntare il dito su chi ha favorito le strategie sbagliate di questa campagna. Molti, però, hanno agito in buona fede nella speranza di sventare questa minaccia fascista. A parte coloro che hanno votato per Trump, se c’è da cercare una colpa in questa catastrofe, allora va fatta ricadere su chi si è astenuto, perché disinteressato, o su chi ha reso inutile il proprio voto scegliendo quei candidati terzi sempre marginali. Nel discorso di riconoscimento della vittoria dello sfidante, la vice-presidente ha implorato le persone perché continuassero a partecipare alla politica dedicandosi a questa o quella organizzazione progressista -un appello giusto. Ci sono valide ragioni per temere ciò che accadrà il giorno dopo l’investitura del nuovo presidente. La rassegnazione, però, non farebbe che realizzare tutte le peggiori profezie. C’è molto lavoro necessario da fare, e credo che nel proprio cuore ciascuno di noi lo sappia.
(traduzione di Stefano Ignone)
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Stephen Bronner è senior editor di Logos, giornale online (www.logosjournal.com). Insegna Scienze Politiche alla Rutgers University del New Jersey. Ha pubblicato, tra l’altro, Modernism at the Barricades: Aesthetics, Politics, Utopia (Columbia University ...
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