1. Premessa
Esiste il proscenio e il retrobottega: nel proscenio si racconta una storia piena di buoni sentimenti di preoccupazioni, nel retrobottega si parla d’altro. Più o meno così può essere descritto il modo in cui si discute di declino demografico. Per provare a ridurre la distanza tra le due arene, propongo qui alcune considerazioni che girano ampiamente nella discussione specialistica angloamericana e che fanno da contraltare alla retorica dei buoni sentimenti tipica del nostro paese. Alla quale, ben volentieri, si accoda l’intera comunità degli esperti del settore, come del resto è stato per i virologi affamati di pubblicità durante il Covid.
La domanda da cui partire è perché in materia di natalità i comportamenti effettivi delle classi dirigenti occidentali e i comportamenti delle donne, ovvero delle dirette interessate, contraddicano in modo così clamoroso i buoni principi sbandierati a destra e a manca. Pensare che sia solo per distrazione o per mancanza di sostegno è quantomeno ingenuo. Fino a poco tempo fa pensavo non ci fossero le condizioni per avviare pubblicamente questo tipo di discussione, ma in questi ultimi mesi diversi interventi sembrano indicare un clima diverso, nel quale, forse, si può cominciare a discutere della questione demografica mettendo sul piatto della bilancia altri argomenti. Si può forse portare un po’ di retrobottega sul proscenio principale.
Una prima difficoltà nasce dal fatto che, quando si parla della messa al mondo dei figli, l’ideologia degli accademici benpensanti va a braccetto con il senso comune. Peccato che tanto l’ideologia quanto il senso comune facciano a pugni con il buon senso, l’unico metro di misura che abbiamo a disposizione per valutare le affermazioni del “colto e dell’inclita”. Ad esempio, sulla base delle risposte alle domande delle indagini demoscopiche, molti ricercatori sostengono che le giovani donne contemporanee vorrebbero davvero fare due o tre figli, ma non se lo possono permettere.
È davvero così, oppure si tratta del consueto social desirability bias, per cui a domande troppo impegnative si risponde adeguandosi alla morale corrente: certo che si pagano le tasse; pochi tradiscono il/la partner; mancherebbe anche altro di non andare a votare; …e, ça va sans dire, si vorrebbero fare due o tre figli.
Mai che venga il sospetto che le donne in età procreativa, una volta raggiunta l’autonomia personale -la quale viene garantita dall’istruzione, dal reddito, dalla (tendenziale) parità di genere e dalla conseguente libertà di scelta- possano avere altre priorità rispetto a quella di fare figli. In secondo luogo, mai che si avanzi l’ipotesi che non tutto il male venga per nuocere, e che, forse, il declino demografico sia meno dannoso di quanto sostengano “da mane a sera” i demografi e il senso comune. Da ultimo, seguendo il buon senso, non converrebbe cominciare a immaginare come si debbano riorganizzare quelle che potremmo chiamare le “società in declino demografico strutturale”, invece di illudersi su possibili riprese prossime venture della natalità? Ma andiamo con ordine.

2. I fatti
Ogni due anni, le Nazioni Unite pubblicano la stima aggiornata delle tendenze della popolazione futura. I tassi di fertilità complessivi del mondo sono da decenni in rapido calo: nel mondo le donne hanno in media un figlio in meno rispetto al 1990. In un numero ormai nettamente maggioritario di nazioni, il numero medio di nati vivi per donna è inferiore a 2,1 -il livello minimo necessario affinché una popolazione mantenga una dimensione costante. Quest’anno, l’agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva (UnFpa), in coincidenza con la pubblicazione del suo World Population Prospects 2024, ha evidenziato come quasi un quinto della popolazione, tra cui la Cina, l’Italia, la Repubblica di Corea e la Spagna, hanno oggi una “fertilità ultra-bassa”, con meno di 1,4 nascite per donna, a cui da ultimo, proprio quest’anno, si è aggiunto anche il Canada. Nel 2024, in sei nazioni la popolazione ha raggiunto il suo picco massimo, tra cui Cina, Germania, Giappone e Federazione Russa, e si prevede che la popolazione totale di questo gruppo diminuirà del 14% nei prossimi trent’anni.
Come ha osservato ancora un anno fa Adair Turner, in tutti i paesi economicamente sviluppati, i tassi della fertilità sono caduti una prima volta tra la fine del diciannovesimo secolo e gli anni Venti, quando la contraccezione è divenuta sempre più disponibile e le donne si sono sempre più liberate dalla sfera domestica a seguito dell’istruzione e della maggiore partecipazione al lavoro. Ma i tassi della fertilità, dopo essere scesi al di sotto del livello di due in molti paesi tra le due guerre mondiali, sono cresciuti nuovamente nella immediata epoca postbellica, raggiungendo circa un livello di 2,4 nell’Europa del nord e appena sopra il livello di tre nel Nord America. Poi, a partire dal 1970, il trend si è di nuovo invertito. Da quando i tassi di fertilità nell’Europa del nord sono scesi al di sotto del livello di due nei primi anni Settanta, seguiti nel decennio successivo da analoghi cali nell’Europa meridionale, essi non sono mai più risaliti al di sopra del livello di due, con una media attuale europea dell’1,46 nascite per donna e nessun paese che supera quota 1,80.
Quale conclusione trarne? Che in tutti i paesi che sono usciti dalla povertà, hanno raggiunto buoni tassi di istruzione delle donne e dove vi è libertà riproduttiva, i tassi di fertilità calano ovunque nettamente al di sotto del tasso di sostituzione. Non sappiamo se questa sia davvero una regola universale del comportamento umano, in ogni caso a oggi non abbiamo alcuna evidenza di segno contrario. Insomma, è un fatto che nelle società ricche e in cui le donne possono decidere cosa fare della propria vita, i bassi tassi di fertilità sono la norma, non l’eccezione. La conseguenza inevitabile è un declino graduale della popolazione.
Vi sarebbe un’eccezione che, secondo alcuni, indicherebbe una possibile strada alternativa. Si tratta della Francia e del suo tasso di fertilità: l’1,69 nel 2023, in calo del 7% rispetto all’anno precedente, e comunque inferiore del 15% al tasso di sostituzione, ottenuto al prezzo di un welfare costosissimo e sempre più insostenibile. Secondo alcuni studiosi, il calo delle nascite in Francia negli ultimi anni sembra essere collegato al taglio degli storici e quasi mitici sostegni alla natalità. Durante la presidenza di François Hollande, nel 2014 e nel 2015, per la prima volta gli assegni familiari sono stati collegati al reddito e ridotti di importo, e il quoziente familiare limitato nel suo beneficio massimo. Un’operazione alla quale ha fatto seguito un calo della natalità di circa il 40%, come ha calcolato uno studio recente, mentre nel 2021, sotto la presidenza Macron, è stato deciso di limitare ulteriormente lo sconto massimo ottenibile per ogni figlio con il quoziente familiare. Va poi ricordato che sui tassi di fertilità francesi incidono  i territori d’oltremare, vi è poi una popolazione immigrata che è stata naturalizzata nei decenni trascorsi e che viene  calcolata a tutti gli effetti come cittadinanza francese autoctona (alzando la natalità),  senza dimenticare che la Francia ha alle spalle un secolo di bassa natalità nonostante l’alta immigrazione. Se si tolgono i territori d’oltremare, la natalità dovuta a immigrazione recente, la natalità dovuta  a immigrati di lungo periodo naturalizzati francesi, il miracolo francese assume proporzioni molto più modeste, tanto che è stato stimato che il tasso di fertilità, al netto di questi tre fattori, scenderebbe intorno, o poco sotto, l’1,50%.

3. Le lacrime di coccodrillo del senso comune e l’arte del buon senso
Un primo wishful thinking è quello di chi  immagina di aumentare la natalità in occidente e di obbligare a ridurla nel terzo mondo, obiettivo non solo irraggiungibile, ma francamente sporcato dall’ombra di un fastidioso razzismo implicito. Di qui l’impressione di predica retorica che si avverte nelle grida d’allarme dei demografi, i quali sembrano imitare i preti di una volta a proposito degli anticoncezionali: neppure loro ci credevano, ma era buona educazione ripetere di continuo che era peccato la sessualità senza procreazione. Di qui il rifiuto a riflettere su come accettare il mondo così come esso è, provando a immaginare come riconfigurare le nostre società alla nuova condizione, quella di un mondo strutturalmente composto da vecchi. Ad esempio, è certo che gli equilibri previdenziali entreranno in crisi, ma chi l’ha detto che il metodo contributivo sia il solo modo di alimentare il sistema pensionistico? Non costituisce un paradosso che un mondo sempre più ricco, nel quale ci sono quantità crescenti di grandi ricchi, non possa trovare nella tassazione le risorse per alimentare una terza gamba della previdenza? Immaginare cioè una prima componente contributiva, una seconda componente assicurativa, e una terza componente di tipo universalistico a carico della fiscalità generale?
Un secondo commento compassionevole lamenta l’inevitabile calo della popolazione in età lavorativa, con conseguenze drammatiche sulla tenuta delle casse previdenziali e l’assenza di ricambio nello stock di occupati. L’immigrazione viene vista come unica risposta di fronte al calo delle forze di lavoro, con i demografi si dilettano con stime catastrofiche sui milioni di immigrati necessari per sostituire la manodopera mancante. Siamo sicuri che queste stime abbiano davvero una qualche validità? In un mondo dove l’automazione e l’Ict sono in rapidissima espansione, il calo demografico può essere visto come una benedizione, non come un disastro annunciato.
Le economie avanzate fanno le stesse cose con molti meno occupati in tutti i settori -nell’ agricoltura, nell’industria, nei servizi- rendendo la forza lavoro potenziale sempre meno rilevante per la crescita del prodotto interno lordo, e non pare un caso che molti paesi con popolazione in declino registrino tassi di crescita comparativamente più elevati. Semmai, a voler essere pessimisti, il problema sarà che il progresso tecnico rischia di impedire la piena occupazione in paesi che ancora si misurano con la povertà e una rapida crescita della popolazione.
In terzo luogo, la questione demografica davvero drammatica continua a essere quella dei troppi, non dei troppo pochi, abitanti del pianeta. Insomma, le “società a declino demografico strutturale” costituiscono una sorta di hegeliana “astuzia della ragione” attraverso la quale miliardi di persone nel mondo affrontano (senza averne consapevolezza) la crisi ambientale.
A meno che ci si rifiuti di ammettere che il primo fattore da cui dipende la crisi ambientale e climatica non sia costituito proprio dal numero troppo elevato di abitanti nel pianeta. Nel millenni passati a garantire una sorta di equilibrio omeostatico ci pensavano le epidemie, le carestie e le guerre, a volte intrecciate tra loro. Oggi abbiamo a disposizione solo la demografia. Senza razionalizzazioni particolari tutti lo avvertono, per lo più in modo implicito. Siccome questo nesso causale è evidente a chiunque -consciamente o inconsciamente, non importa- a nulla servono le prediche inutili, incapaci di comprendere le ragioni, per l’appunto “ragionevoli”, che spingono miliardi di persone a non fare figli nel mondo contemporaneo. La “cura del corpo”, con conseguente bassa natalità, costituisce uno stratagemma universale che spinge a comportamenti collettivi che hanno come conseguenza inintenzionale la riduzione del  sovrappopolamento mondiale. Perché menare scandalo? Perché mettere sul banco degli imputati chi -forse senza saperlo- sta salvando il pianeta?

4. Che fare?
Se si accetta il fatto che il declino demografico strutturale è un bene e non un male (o non solo un male), il passo successivo riguarda il come si riorganizzano le società e le organizzazioni produttive nel nuovo mondo che avanza, un mondo con molti più anziani e molti meno giovani. Certo, serviranno molti immigrati, specie nei lavori poveri (produzione a basso valore aggiunto, basse qualifiche, attività di cura e di assistenza), ma molti meno di quanti si paventano. Che l’immigrazione costituisca un parte della soluzione al problema è certo ma farla diventare l’unica policy è insensato e costituisce un sintomo di qualcosa che non va (e andrebbe spiegato il perchè), specie in tanta parte del mondo cattolico. Un modo alternativo per porre la questione è il seguente: in che modo l’automazione e le tecnologie digitali potranno ridurre il numero di lavoratori necessari alle produzioni future? Quante produzioni tradizionali vogliamo ancora in Europa, in Italia? Il che è lo stesso: quanti lavoratori/abitanti in più (o in meno) si vogliono nei prossimi dieci/venti anni anni? Sapendo che ci sono tre soluzioni che si possono combinare tra loro nel modo che meglio si decide: a) importare lavoratori (specie nei lavori non automatizzabili); b) esportare imprese (specie quelle ad alta intensità di lavoro e di inquinamento); c) accelerare l’automazione (effetto di sostituzione).
A volte viene da pensare che quando le forze politiche anti-immigrati in modo ipocrita chiedono lo sviluppo del terzo mondo per non averli in casa, sotto sotto, siano manovrati anche loro dalla mano nascosta dell’“astuzia della ragione”, che li spinge migliorare il mondo senza saperlo. Di certo, invocare con sottile piacere quote di immigrazione sempre più elevate significa perorare implicitamente la causa di società divise in caste sempre più impermeabili, con al fondo una classe neo-servile sulla quale si rifiuta di gettare lo sguardo e tantomeno di immaginare i modi per ridurla allo stretto minimo necessario. Nel frattempo, in silenzio, senza proclami, sempre più imprese, spostano le loro produzioni a basso valore aggiunto nei paesi in via di sviluppo. Nel decenni trascorsi è capitato al tessile e al calzaturiero. Oggi accade per il settore del legno e per alcuni comparti della meccanica. Che fare, dunque? Per prima cosa attrezzarsi a guardare il mondo così com’è e non come lo si vorrebbe, per poi immaginare quali politiche sono utili per migliorarlo davvero.