Patrizia Betti aveva partecipato alla fondazione della nostra rivista e per molti anni ne era stata una delle “militanti” quotidiane. Bravissima nella correzione di bozze, dovendo quindi leggersi tutte le interviste era diventata anche una consigliera preziosa sulla bontà dell’intervista, sulle tracce che si potevano seguire ma non erano state colte dall’intervistatore, sugli spunti interessanti che potevano essere ripresi con altri interlocutori. Era una sostenitrice delle interviste a gente comune e un giorno ci raccontò, ma a mo’ di esempio, la vita dura di sua madre, donna di servizio di una banca e moglie infelice. La prendemmo in parola e le chiedemmo di poterla intervistare. Tentennò molto ma alla fine accettò e andammo, senza di lei ovviamente. Ne venne fuori un’intervista molto bella sull’amarezza di una moglie invecchiata con un marito che non la meritava. Un’intervista molto dura sui maschi. La intitolammo “La lavatrice del 63” e apre la nostra raccolta di storie di donne Lo Chopin partiva, un libro a cui Patrizia ha contribuito e di cui andiamo particolarmente fieri.
Appassionatasi alla storia della strage di ebrei avvenuta a Forlì nel ’44, fece la tesi universitaria sulla storia di quelle famiglie, ricostruendo le vicissitudini che le portarono al carcere di Forlì. Molti di questi documenti dell’Archivio di Stato sono stati preziosi anche per rintracciare i parenti sparsi per l’Europa e in Israele. Le loro fotocopie, raccolte da Patrizia, oggi formano il nostro archivio della strage.
Si dimise dalla redazione all’improvviso e smise anche di venire in fondazione. Non abbiamo mai saputo bene il perché, ma certamente quel tipo di militanza, fissa all’obbiettivo e quasi totalizzante, per tanti versi simile alla precedente che alcuni dei fondatori avevano portato avanti per una decina d’anni, alla fine consuma. Il primato dell’obbiettivo poi a volte logora anche i rapporti e Patrizia era troppo sensibile per assistere a litigi e polemiche.
Ci perdemmo un po’ di vista. Ci incontrammo alcune volte e la invitammo caldamente a ritornare, scherzando sul numero di errori che dalle sue dimissioni costellava ogni numero della rivista. Ma non accettò. Lavorava in una rete di cooperative sociali e l’ultima volta che l’abbiamo vista è stato un giorno che accompagnò un ragazzo di una casa famiglia che ormai da anni viene a fare il volontario da noi. Ma scappò quasi via. Forse c’era già qualcosa che non andava e non voleva parlarne.
Qualche settimana fa alla professoressa Paola Saiani, che noi, e anche Patrizia, conoscevamo bene perché autrice del primo saggio sulla strage di Forlì, un amica chiede di accompagnarla a visitare un appartamento rimasto vuoto per la morte dell’inquilina, per vedere i libri e valutare se valesse la pena salvarli. Glielo aveva chiesto il fratello della scomparsa che vive in Venezuela. Appena entrata Paola è rimasta impietrita: era la casa di Patrizia. I ritagli di “una città” erano sparsi ovunque. Era morta per un tumore, sola e, ci hanno detto poi i cooperanti, male. Aveva 69 anni.
Può succedere, certo, e oggi più di ieri, visto la quantità di single senza figli. E però ci sono gli amici. O ci dovrebbero essere. Ma noi, no, non ci siamo stati.
A volte vien da odiare l’obiettivo che sfrutta l’amicizia. Se si perde qualcuno per strada dispiace ma si deve andare avanti comunque. Invece, forse, bisognerebbe anche fermarsi e perderci del tempo. Forse è l’amicizia, e la solidarietà che ne consegue, il fine di ogni impegno e, forsanche, dello stesso socialismo.
Addio Patrizia.
gs