Perché il senso della propria inadeguatezza non diventi frustrante fino alla paralisi, penso che sia opportuno cercare di farsi un’idea della dimensione dei problemi in campo. Mi pare che una rappresentazione utile potrebbe essere quella di immaginare dei cerchi concentrici attorno ad un centro, che è il soggetto di cui parliamo. Del resto la centralità dello studente è diventata negli ultimi tempi un’espressione rituale ricorrente nei repertori retorici dell’istituzione scolastica e, come sempre, inversamente proporzionale alla sua pratica. Lo studente da cui parto è quello che conosco io, cioè lo studente napoletano di istituti tecnico-professionali, situati in territori della città dove vivere non è bello.
Dunque, il cerchio più stretto riguarda i problemi che il nostro soggetto sta affrontando per il semplice fatto di essere pervenuto a quel punto del ciclo vitale che si usa chiamare adolescenza e che comporta una serie spettacolare di trasformazioni fisiologiche, intellettuali e psico-sociali. Difficoltà a riconoscere e accettare il proprio corpo, con tutti i problemi annessi alla sessualità; abbandono dell’identità corporea e psicologica infantile e costruzione di una nuova identità con tutte le nostalgie, insicurezze, quando non vere e proprie angosce, che ciò comporta: bastano due accenni per dare un’idea dell’entità dei problemi che occupano la mente dei nostri alunni, impegnandone buona parte delle energie psichiche e interferendo, a volte in maniera decisiva, con i compiti espliciti della scuola, solo che l’insegnante abbia occhi per vedere e orecchi per intendere.
Un solo piccolo esempio. La dinamica della persecuzione del tipo soggetto, una delle più frequenti nelle aule scolastiche, quest’anno nella mia prima classe ha preso come bersaglio il ragazzo più piccolo e più brutto. Di qualunque argomento si parli, basta nominare parti del corpo, o aggettivi e verbi indicanti piccolezza, grandezza, bellezza, bruttezza, perché parta il proiettile di una battuta crudele, con relativa risposta, controrisposta e così via. Il malcapitato, a sua volta, fa di tutto per tirarsele addosso, come è tipico di questa dinamica, che consiste nel proiettare sul capro espiatorio le parti inaccettabili di se stessi, e nel perseguitarle incessantemente: in questo caso è evidente che vengono proiettate le angosce relative al proprio corpo, le paure di restare piccoli, di essere brutti e spregevoli agli occhi dei compagni, e soprattutto dell’altro sesso. E’ altrettanto evidente che il povero soggetto in questo modo, oltre alle sue proprie angosce viene sovraccaricato di quelle altrui, con le conseguenze che possiamo immaginare sulla sua possibilità di lavorare serenamente in classe. Questa e altre dinamiche simili possono anche non esplodere in forme clamorose, ma sono sicura che anche nella classe più tranquilla fiorisce una vita sotterranea intensissima, perlopiù nascosta agli insegnanti, una rete di messaggi che hanno al centro questo tipo di problemi e che concentra su di essi la maggior parte dell’attenzione.
Fronteggiare tali problemi è già arduo per un ragazzo che, per comodità, possiamo chiamare normale, cresciuto in un ambiente in cui le relazioni fondamentali non siano troppo complicate. Figuriamoci gli altri.
E qui siamo già passati al secondo cerchio, la famiglia. Sulle trasformazioni profonde della famiglia sono stati fatti innumerevoli studi; a me, tuttavia, interessano un paio di aspetti che incidono particolarmente sul malessere scolastico. Il rapporto, abbastanza scarso e quasi sempre imbarazzante, che abbiamo con le famiglie, rivela spesso un’atmosfera che è un miscuglio di asfissia e di impotenza. Io riferisco queste impressioni in parte alla crescente evanescenza della figura paterna e all’assunzione di un ruolo in qualche modo materno da parte della coppia di genitori, con conseguenze negative su quello che è il nucleo essenziale del processo di crescita, cioè il passaggio dalla dipendenza all’autonomia. La coppia di genitori, anche dal mio osservatorio su classi sociali non certo elevate, mi appare spesso omogeneizzata nell’offrirsi ai figli come dispensatrice onnipotente di beni, sia per la oggettiva abbondanza di questi sia per la possibilità che tale abbondanza consente di utilizzare tali beni come sostituti di altre funzioni più impegnative, e meno comode. Questo fatto, se, da una parte, invischia l’adolescente in un ambiente dal quale è sempre più difficile rendersi autonomo; dall ...[continua]

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