Quando si è diffusa la notizia della morte di Marek Edelman, la sera del 2 ottobre, in tanti hanno pensato che Marek era l’ultimo. Un pensiero struggente e strano, perché non era quasi mai accompagnato dalla specificazione: l’ultimo di chi, di che cosa? Non ce n’era bisogno, e poi forse non sarebbe stato vero. L’ultimo della rivolta del ghetto, l’ultimo bundista, l’ultimo fraterno guardiano dei suoi morti, l’ultimo di un modo di essere uomini e di restarlo fino all’ultimo giorno di una vita drammatica e lunghissima? C’è qualche altro superstite, qualche altro bundista, qualche altro fedele custode della memoria, e tanti altri uomini e donne capaci di affrontare la vita e la morte tenendo scontrosamente la testa alta, ignorando le lusinghe e bevendoci su con i propri cari. Però proprio per questo, per questa indefinitezza e precisione insieme di un sentimento, il saluto a Marek come all’ultimo è stato il riconoscimento più significativo di chi l’ha conosciuto e ha immaginato attraverso lui i suoi e i nostri tempi; ed è la sensazione più difficile da trasmettere. Meno difficile a chi guardi queste fotografie. Intanto c’è il viso di Marek, e i suoi occhi: l’ingrandimento della commemorazione non riesce a dargli niente di monumentale. Quel viso dice: non fatela tanto grossa, non datevi tante arie, sono tutte cose così, la vita è così. E dice anche che, senza darsi arie, senza regalare alla Storia e alla propria parte nella storia una solennità che non merita, si può amare gli altri e la giustizia senza risparmiarsi, e per amore degli altri, dei deboli, dei poveri, dei perseguitati, trascorrere ogni notte della propria esistenza con un occhio aperto, ad avvistare i prepotenti gli sfruttatori e i persecutori e mettersi di traverso ai loro carri. Ho guardato queste e altre fotografie e i filmati affidati a youtube, e provato la sensazione che un’intera vicenda, la vicenda essenziale della gran parte della vita mia e dei miei simili si concludesse nelle immagini di quel funerale. Il picchetto d’onore, le tre salve esplose dai militari agli ordini del loro ufficiale, l’inno nazionale polacco, e tutte quelle personalità e quelle corone, commosse e rassegnate a restare in seconda fila dietro gli amici e le persone comuni, attorno alla bara di quel piccolo uomo che aveva tenuto il suo posto per tutta la vita contro le più potenti e spietate delle autorità. Il posto che aveva ereditato per nascita e che aveva fatto proprio per scelta. Il combattente con e per i suoi, e poi il guardiano irremovibile dei suoi: senza che questo gli impedisse di sentire suoi tutti quelli che in qualunque punto della terra vengono schiacciati e si ribellano. E’ appena uscito per Sellerio un nuovo libro di ricordi di Marek affidati all’ascolto affettuoso e intelligente di Paula Sawicka, si intitola "C’era l’amore nel ghetto”, Marek ha voluto raccontare che se nel ghetto si soffriva e si moriva, e però si combatté, come nessuno aveva mai osato prima contro l’onnipotenza nazista, nel ghetto anche si viveva e si amava, ci si innamorava, si faceva l’amore, si continuava anche solo per un giorno, per una notte, la vita di prima: e si dimostrava così quanta generosità e bellezza e dignità ci fosse stata nella vita di prima degli ebrei polacchi. In appendice al libro -ma è forse il capitolo più bello- Marek ha dettato le biografie delle persone citate nel racconto, poche righe per ciascuna, in quello stile secco, e improvvisamente folgorato da un dettaglio, che gli era proprio. (Così, per esempio: "Lusiek (Eliezer) Blones, 1930-1943, il più piccolo dei fratelli Blones e il più giovane soldato dell’insurrezione, combatté nel gruppo del Bund. Fu ferito al labbro, non so come sia successo. Le prostitute di via Franciszkanska lo facevano mangiare delicatamente con l’imbuto”). Introducendo la lista delle sue persone, Marek stesso si era definito l’ultimo, sia pure in modo circostanziato: "Sono ormai l’ultimo che conosceva queste persone per nome e cognome, e probabilmente nessuno li ricorderà più. Bisogna che rimanga di loro qualche traccia”.
Ecco. Le fotografie che state guardando, che stiamo guardando, mostrano le migliaia di persone giovani e vecchie, con le teste coperte o no, e tanti fiori diversi, che si sono raccolte per il funerale di Marek Edelman, l’ultimo.
Adriano Sofri