Avevo intitolato il mio ultimo articolo su "Una Città” (n. 162, febbraio 2009) «Obama potrà convincere Israele?». Il suo proposito di risolvere la questione palestinese con la formula ‘due Stati per due popoli’ sul territorio fra il mare e il Giordano, per trasformazione dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) in Stato della Palestina, è fallito. È utile rammentare che l’ANP è frutto degli Accordi di Oslo (13 settembre 1993) fra l’Olp (Organizzazione Liberazione Palestina, considerata fino ad allora terrorista) e Israele. Essi si riconobbero, l’Olp rappresentante del popolo palestinese, Israele interlocutrice di negoziati di pace.
Uno Stato (pertanto sovrano) palestinese con confini riconosciuti dalla comunità internazionale su due distinte aree separate dal territorio israeliano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, si è rivelato una chimera. Né il proposito di Obama potrà essere realizzato durante la sua presidenza e probabilmente nemmeno in seguito. Tutte le questioni che dividono Israele e i palestinesi, lasciate aperte dagli Accordi di Oslo, sono tuttora allo stato conflittuale. Insediamenti ebraici in Cisgiordania, confini fra Israele e la futura Palestina, fra questa e la Giordania, status di Gerusalemme Est, rientro dei profughi e discendenti, sfruttamento delle falde freatiche nelle colline della Cisgiordania sono da tre lustri oggetto di scambi niente più che verbali in una fase pre-negoziale.
Vane trattative, anche nei due anni e più di presidenza Obama, sono state la recitazione di annunciate intenzioni con la quarantennale determinazione israeliana di preferire lo status quo a qualsiasi cedimento sul controllo e colonizzazione della Cisgiordania. Intransigenza mascherata, per compiacere l’alleato americano, da dichiarazioni a favore di trattative.
Il 23 settembre 2009 all’Assemblea Generale dell’Onu Obama afferma «[…] continueremo a far presente a gran voce che l’America non accetta che Israele continui a considerare legittimi gli insediamenti dei coloni nei Territori […] è venuto il momento di rilanciare i negoziati che affrontino una volta per tutte le questioni di sempre: sicurezza per gli israeliani e palestinesi, confini, profughi e Gerusalemme. L’obiettivo è chiaro. È quello di due stati che vivono l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza: lo stato ebraico di Israele […] e lo stato palestinese indipendente […] nel quale abbia fine l’occupazione iniziata nel 1967 […] Gli Stati Uniti non rendono un favore a Israele quando mancano di abbinare a un risoluto impegno alla sua sicurezza l’istanza che rispetti le legittime richieste e i legittimi diritti dei palestinesi […]» ("The White House, Office of the Press Secretary”, 26 settembre 2009).
L’anno dopo (23 settembre 2010) nella stessa sede Obama auspica la soluzione dei due Stati entro un anno. Pronuncia in quell’occasione parole assennate. Afferma che gli israeliani non vivranno in sicurezza se non con vicini indipendenti, impegnati a coesistere, e che senza accordi la demografia avrà il sopravvento sulla politica. Intervento, per quanto significativo ingenuo e attenuato rispetto a quello nell’occasione precedente, col solo risultato di suscitare il risentimento di Avigdor Lieberman (leader dell’ultra nazionalista Ysrael Beytenu e ministro degli Esteri) in Usa per l’occasione. Letto in precedenza il discorso, diserta l’Assemblea per festeggiare Sukkot (la festa dei Tabernacoli), e proibisce -schiaffo agli Usa senza precedenti- anche la presenza in aula di una rappresentanza israeliana di secondario rilievo.
In campagna elettorale nei discorsi di Obama primeggiava, in politica estera, quello di impegnarsi a risolvere il conflitto israelo-palestinese e di arbitrare fra le due parti. Aveva tuttavia imprudentemente rivelato il proposito di un arbitraggio sostanzialmente ineguale. Indice di una convinzione personale, oppure della intenzione di rassicurare l’elettorato filo israeliano ...[continua]
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