Sono nato, 75 anni fa, sotto il Gran Sasso. Lì nevica d’inverno, come ha nevicato quest’anno, assai più che in Piemonte, dove gli inverni sono secchi. Ogni volta che una corrente di aria artica o siberiana scende sui Balcani, si carica dell’umidità adriatica, la sbatte contro il Gran Sasso e la butta giù come neve sull’Abruzzo ultra due, come si chiamava una volta la valle del Vomano, e anche sull’Abruzzo citra, più a sud, senza risparmio. Non ricordo un solo inverno in cui non siamo, come si dice, rimasti isolati vari giorni; qualche volta una settimana.
Una volta, il 6 gennaio del ‘43 -avevo 6 anni- la neve era così alta che mio padre mi calò, tenendomi per le mani, da una finestrella che dava su un angolo riparato,  con una pala, perché liberassi un po’ la porta di casa, interamente sommersa. La neve era farinosa, leggera; ma, anche nel punto riparato, era molto più alta di me, e mi spaventai.
Restare isolati però non voleva dire quasi nulla. In campagna, in montagna, eravamo completamente autonomi. Non c’era il telefono; non c’era l’acquedotto; fino al ‘46 non c’era l’elettricità; non c’era una strada carrozzabile degna del nome -e, del resto, ovviamente, nessuno aveva l’automobile o la motocicletta. Nessuno faceva la spesa perché non c’erano negozi, né in paese né nei paesi limitrofi. C’era uno spaccio sulla strada di fondovalle, a 4-5 chilometri di distanza, per il sale -fino a che non sparì per la guerra- i tabacchi, la soda caustica per il sapone, l’acetilene per la luce, un bicchiere di vino per i viandanti. Fino al ‘48 non c’era un trasporto pubblico neppure a fondovalle. Per andare alla prima media, in discesa  mi portava sulla canna della bicicletta un contadino amico di mio padre che si era messo a fare il muratore e mi lasciava alle porte della città -che era murata, aveva le porte. In salita, al ritorno, bisognava camminare, per scorciatoie. Ci mettevo non molto più di un’ora perché ero una lepre. Dal ‘48 misero un camion riattato sulla strada di fondovalle e il tempo, dalla fermata a casa, si ridusse a mezz’ora. Avevamo l’orto, il grano, il vino, l’olio, le api, le galline, i conigli, qualche pecora, le vacche, per l’aratro e i vitelli, il maiale; la legna al riparo, che gli adulti spaccavano con l’ascia o con i cunei e la mazza, "calata con un secco ululo d’uomo”, come ci insegnavano a dire a scuola. Da fuori usavamo il mulino, che era in un paese vicino, il frantoio, i cardatori ambulanti per la lana, il falegname, il sarto, il calzolaio, che in paese non c’erano. Ma solo un perfetto cretino si faceva trovare dalla neve senza farina o con le scarpe sfondate. O un perfetto povero. E i poveri c’erano. I bambini senza scarpe d’inverno stavano al chiuso. Non poteva arrivare il medico; non facilmente. Ma se uno stava veramente male il medico condotto, sentito il messaggero che gli raccontava i sintomi, si metteva gli scarponi e arrivava. Ma si moriva anche, qualche volta.
Non erano realmente molto solidali i paesi; nel senso che i poveri erano poveri e poco gli veniva dato. Ma tra i relativamente poveri, come eravamo tutti, c’era molto scambio di aiuto, e quasi tutti si comportavano in modo socialmente sensato, salvo che per i diritti di passaggio, per i confini, per la proprietà. Mi sono reso conto da adulto che nella neve mi viene naturale camminare in modo da lasciare un sentiero percorribile -non mettendo i pedi dove ci sono già le orme, producendo buchi sempre più profondi, ma tra un’orma e l’altra. In quanto a spalare, spalo da una settantina d’anni e spero di continuare ancora per un po’.
Gli adulti si ­preoccupavano di battere il sentiero per la scuola dei bambini; andavano a trovare i vecchi soli. I paesi sulle strade per i valichi si davano da fare per aiutare a tenere sgombra la strada, che era anche il loro contatto con il mondo. C’erano i cantonieri; gli autisti dei pullman svolgevano un vero, e apprezzato, lavoro di collegamento tra i paesi. Portavano il latte alla centrale in città dalla montagna, portavano le maestre e i bambini alle scuole. Lo spirito di servizio è venuto meno con il crescere della futilità dei viaggi -andare a Roma per fare shopping, come si dice; con la pretesa che tutto funzioni da sé, sempre; che non ci sia bisogno di guardare che tempo fa, di mettere le gomme giuste, di portare e saper mettere le catene.
Più di dieci anni fa mi è capitato di assistere a un cambio di generazione degli autisti. Dovevo andare da Teramo a Roma; per un qualche mo ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!