Il tuo impegno nell’ambito delle politiche sociali, oggi con un ruolo istituzionale, viene da un percorso personale anche molto intenso, fatto in prima linea. Puoi raccontarci?
Io ho cominciato, all’inizio degli anni Ottanta, come volontario in un piccolo gruppo di disperati che lavorava a Tor Bella Monaca. Tor Bella Monaca, come forse saprete, è una delle periferie più difficili di Roma, forse d’Italia; è una zona creata a circa 5 km dal raccordo anulare, quindi esternamente rispetto al perimetro urbano, con l’idea di condire di verde e quindi -si diceva- di “vivibilità” la vita delle persone che vi avrebbero abitato. C’era il progetto di incuneare dentro queste grandi strutture residenziali popolari, dei complessi residenziali per un ceto medio-basso, con alloggi di cooperative. Ebbene, quando io iniziai a frequentare quell’ambiente, non c’era una farmacia, né un supermercato, né un posto di polizia, né una chiesa, non c’erano servizi sociali. In quelle case popolari avevano preso posto famiglie con i problemi più disparati. In più l’amministrazione comunale aveva assecondato, forse considerandola innocua, la scelta di collocare nelle scale le persone in base ai problemi, per cui avevamo delle scale intere di disabili, delle scale intere di persone con problemi psichici…
Noi, con la carica di persone perbene che venivano da un altro quartiere, abbastanza colte, con una discreta motivazione, avevamo aperto un centro d’ascolto Caritas. Il problema era che la gente, fondamentalmente, ci chiedeva da mangiare.
Tor Bella Monaca confina con altrettanto storiche borgate, borgata Finocchio, Torre Angela, tutte zone problematiche, ma con una tradizione e una fisionomia più strutturata; la classica borgata degli operai edili arrivati dalla Calabria e in genere dal sud, che abusivamente si erano costruiti la loro casetta.
Lì invece era un girone infernale. Tor Bella Monaca era senza servizi e con una dimensione identitaria che sembrava un caleidoscopio impazzito, in cui la devianza era il pezzo più strutturato. Così abbiamo cominciato a distribuire delle buste con dentro dei generi alimentari.
All’epoca il quartiere sfiorava i 30.000 abitanti, ma era un numero in crescita, ed essendo gli alloggi tutti occupati, capitava che in un appartamento di 60-70 mq vivessero anche in 15…
Presto comunque ci siamo resi conto che la gente non aveva soltanto bisogno di mangiare, aveva problemi di tutti i tipi: avvenivano incesti in continuazione, c’erano bambini con problemi evidenti, c’erano donne maltrattate, padri alcolizzati…
Quest’esperienza per me resta importante forse più per gli scacchi subiti, che per un effettivo successo finale.
Comunque, per alleviare almeno il problema del cibo commettemmo una grande ingenuità, pensammo: perché non facciamo una mensa qui? C’era la mensa di Colle Oppio, c’era la mensa della stazione Termini…
Ebbene, quando lanciammo questa idea, io fui designato a negoziare la proposta con il collettivo di quartiere, un gruppo di persone incazzatissime, molto ideologizzate, che da tempo portava avanti un discorso sui diritti sociali, in netto contrasto con quella che giustamente a loro sembrava la definitiva sanzione del loro stato: la mensa, appunto. Insomma uscii sconfitto, ma alla fine credo di aver realizzato che per me era stata una sconfitta più importante di una eventuale vittoria.
Fu una bella lezione su come i processi fossero ben più complessi di quanto da noi ipotizzato; il che, anche da un punto di vista culturale, rispetto ad un approccio da gruppo ecclesiale, mi fece cambiare radicalmente prospettiva, anche creando delle tensioni nel gruppo di persone che condividevano questa esperienza.
Da quel momento comunque cominciammo una lotta per i servizi, che era il terreno comune che avevamo trovato. Facemmo la battaglia per le linee dell’Atac, per mettere la farmacia, per avere gli uffici anagrafici, per la concessione delle licenze commerciali…
Le scuole erano una specie di ricovero per i bambini ...[continua]
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