Mario Spada è direttore dell’Ufficio Sviluppo Locale Sostenibile Partecipato del Comune di Roma (www.comune.roma.it/uspel).

Come nasce l’idea del contratto di quartiere?
I contratti di quartiere nascono in Italia da un bando del Ministero dei Lavori Pubblici pubblicato nel ’98. Chi propose questo bando (funzionari del ministero, esperti di ambiente e di politiche sociali) aveva almeno due intenzioni. Da un lato portare in Italia esperienze europee come quella del programma Urban, finanziato dalla Ue, che era orientato verso i quartieri più degradati, spesso di edilizia economica e popolare, le periferie insomma, dove il degrado è anche sociale ed economico oltre che ambientale. Il programma Urban infatti si proponeva di coniugare la riqualificazione urbanistica ed edilizia con elementi di sviluppo economico locale e di sostegno alle figure svantaggiate (disoccupati, donne sole, giovani in cerca di prima occupazione). Poi c’era il modello francese dei contrats de ville, in cui ritorna il tema del contratto sociale all’origine della democrazia moderna, che evoca l’idea della governance, cioè di un modo di governare che non pone la pubblica amministrazione nel ruolo del decisore forte e autoritario che concede servizi, ma come uno degli attori che ha il compito di indirizzo degli interessi generali della comunità e stabilisce un rapporto di confronto e possibile collaborazione con gli altri attori, concordando con loro una visione condivisa dei problemi e delle soluzioni. Infine c’era un aspetto più interno al dibattito urbanistico nazionale, perché nell’ambito del Ministero dei Lavori Pubblici era prevalente una corrente di pensiero intenzionata a svecchiare la pianificazione urbanistica legandola a programmi di recupero urbano (chiamati programmi integrati o complessi) miranti principalmente al coinvolgimento di risorse finanziarie private. In cambio dei loro investimenti, i privati ricevevano dei vantaggi in termini di varianti urbanistiche, aumenti di cubature e cose del genere. A questa categoria di programmi, cosiddetti complessi, appartengono, ad esempio, i patti territoriali o i contratti d’area; tutte operazioni di urbanistica contrattata che però spesso hanno dato esiti pessimi perché sono serviti a fare operazioni speculative di basso profilo. Chi ha proposto i contratti di quartiere cercava dunque di contrapporre a questa visione più liberista, troppo vicina a coloro che intendono il territorio come tessuto indifferenziato che produce ricchezza, oggetto di contrattazione esclusiva tra poteri forti, una visione che invece focalizzasse di più le zone di vero degrado della città, spesso coincidenti coi quartieri di edilizia residenziale pubblica (poco appetibili per gli investitori privati e quindi generalmente esclusi dalla contrattazione), riproponendo delle specie di progetti Urban su scala nazionale. Il fatto però che una quota consistente dei finanziamenti per i contratti di quartiere fosse costituita da fondi Gescal, quindi i vecchi fondi gestione delle case popolari, indeboliva il programma. I fondi Gescal infatti sono vincolati alla ristrutturazione e alla costruzione di edilizia residenziale pubblica, perciò non potevano avere un ampio respiro territoriale e dare copertura all’integrazione di misure di riqualificazione sociale ed economica che pure era richiesta; si limitavano a finanziare la costruzione di case, giardini, tutt’al più più centri sociali e scuole. Certo, sempre meglio che niente.
Un altro dato apprezzabile era che per la prima volta in un bando del Ministero dei Lavori Pubblici si accennava al tema della partecipazione, al fatto cioè che i programmi devono essere discussi e concordati coi cittadini.
Il bando ha prodotto una serie di progetti un po’ in tutte le regioni, anche interessanti, ma piuttosto limitati perché poi alla fine si riqualifica una porzione di territorio, alcune case degradate, ma senza incidere davvero in profondità. Buoni contratti, sulla base del primo bando, sono stati fatti a Padova, a Torino, in alcune medie città del Sud; il bilancio complessivo è che le risposte migliori sono venute dalle città medio piccole, le città grandi invece hanno sottovalutato questa opportunità. A Roma, dove comunque sono stati fatti alcuni buoni contratti, c’erano i programmi di recupero urbano appartenenti alla famiglia dei programmi complessi, che derivavano dall’articolo 11 della legge 493 del ’93, in cui però gli interlocutori principali erano gli impre ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!