Dal 2000 sei il rappresentante italiano del comitato Europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Di cosa si tratta?
La definizione precisa è Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumane o degradanti. Nato sulla base di una Convenzione dell’87 è diventato uno strumento operativo a partire dall’89.
L’Italia vi ha aderito da subito e ne ha avuto inizialmente la presidenza. In quel periodo la situazione carceraria italiana era numericamente ben diversa dall’attuale: i numeri erano allora tra i più bassi nell’Europa occidentale, anche per via delle ricorrenti amnistie che per anni avevano avuto un effetto calmiere. Pur con delle fluttuazioni, questa situazione contenuta si era mantenuta anche durante i cosiddetti “anni dell’emergenza”. Sono i primi anni Novanta a mutare il quadro: da un lato il ricorso crescente all’utilizzo della penalità verso fenomeni sociali e comportamenti individuali, immigrazione irregolare e uso di droghe in primis, dall’altro la fine del ricorso a provvedimenti di clemenza. Nel ‘92, infatti, viene approvata una modifica alla Costituzione che sottoponendo l’amnistia e l’indulto a una maggioranza dei due terzi dei parlamentari aventi diritto al voto -maggioranza pressoché irraggiungibile- chiude con la possibilità di questa valvola di sfogo. Da allora, mentre entrano sempre più persone in carcere, ne escono sempre meno e i numeri sono andati crescendo con rapidità, fino a far diventare il sovraffollamento il primo problema del nostro sistema penitenziario.
Il Cpt, come dicevo, ha il compito di controllare tutti i luoghi dove le persone sono private della libertà per individuare sia i casi di maltrattamenti e possibili torture, sia le situazioni di trattamento inumano o degradante.
Credo sia utile spendere qualche parola su questi termini.
Per la tortura non è difficile rintracciare una definizione condivisa nel diritto internazionale. Ci si rifà a quella data dalla Convenzione dell’Onu contro la tortura, che la caratterizza non solo per la consistenza dell’atto e per la responsabilità ufficiale di chi agisce o istiga o acconsente, ma anche per il suo essere atto volontario e finalizzato a uno scopo. Non sempre il fine è quello di ottenere una confessione o delle informazioni; può anche essere quello di infliggere umiliazione o una sorta di pena preventiva. In ogni caso però la tortura è un atto volontario e finalizzato.
Diversa e più sfumata è la connotazione di un trattamento inumano o degradante: questo può essere il prodotto di un insieme di fattori di inadempienza, di carenze igieniche del luogo di detenzione, di sovraffollamento, di non controllo e non cura, che al di là della volontà esplicita di infliggere sofferenza configura ugualmente una situazione offensiva della dignità umana.
Noi, per dire, abbiamo segnalato casi di persone detenute in 24 in una cella con 8 letti in tutto, per cui era necessario fare tre turni regolati addirittura dalle guardie. E’ facile immaginare quale sia il tipo di vita in una cella in cui ci sono sempre 8 che dormono e 16 per terra...
Questi trattamenti non rientrano nella categoria della tortura perché non sono atti di violenza finalizzata a uno scopo, sono piuttosto il risultato di politiche detentive sbagliate o assenti, o di non considerazione delle persone e dei loro diritti fondamentali.
Proprio per questo, per individuare una situazione di possibile trattamento inumano o degradante è essenziale l’analisi complessiva delle previsioni normative, degli strumenti di garanzia, delle condizioni materiali di detenzione, del profilo formativo degli operatori, della effettività delle inchieste sui casi di maltrattamento denunciati o semplicemente riportati. Da qui l’attività ispettiva svolta dal Comitato ...[continua]
Esegui il login per visualizzare il testo completo.
Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!