Said Raouia è il presidente della cooperativa sociale Sanabil, nata nel 1992 a Torino per iniziativa di un gruppo di cittadini stranieri e italiani, per intervenire sulle questioni sociali, culturali ed economiche legate all’immigrazione, con particolare attenzione ai minori immigrati.

Puoi raccontarci come è nata la cooperativa Sanabil?
A Torino, e in Italia in generale, i primi flussi migratori risalgono all’inizio degli anni ’90. Di lì a poco la situazione si è subito presentata come emergenziale, perché i cittadini stranieri arrivavano con problemi e richieste a cui le città italiane non erano pronte a rispondere, dai permessi di soggiorno all’alloggio, dalla sanità al lavoro fino ad arrivare ad altre questioni, come l’inserimento dei minori e delle donne arrivate col ricongiungimento.
La nostra cooperativa è nata nel ’92, come iniziativa di un gruppo di cittadini stranieri e italiani che avevano già maturato una loro esperienza individuale sul campo e che in quegli anni avevano cominciato a incontrarsi per riflettere su cosa si potesse fare e anche, noi stranieri, su cosa si potesse “dare” partendo dalla propria esperienza di immigrati.
Fin dall’inizio Sanabil si è caratterizzata per l’impegno coi minori. A partire dal ’92 si cominciarono infatti a vedere per le strade i primi ragazzini venditori ambulanti. Erano di provenienza marocchina. Quasi contemporaneamente, nel ’93-94, è emerso il problema dei minori nel penale, e quindi il lavoro all’interno del Ferrante Aporti…
Anche in quel caso le istituzioni si erano trovate ad affrontare un problema inedito: cittadini stranieri minorenni, spesso soli, che finivano nel carcere minorile. Un problema enorme, su cui abbiamo investito risorse e impegno, sia lavorando all’interno dell’istituto sia all’esterno, con educatori di strada. Tra l’altro scoprendo che spesso il minore che finiva al Ferrante Aporti, in realtà iniziava un percorso che lo vedeva entrare e uscire più volte dal carcere minorile.
Devo anche dire che siamo partiti con finanziamenti minimi, talvolta insufficienti, del resto non potevamo aspettare, bisognava iniziare da qualche parte. Certo, il finanziamento era e resta fondamentale, perché uno deve inserire anche degli operatori, però era altrettanto urgente attivare una qualche servizio, anche per capire quali fossero le esigenze delle persone straniere a cui ci rivolgevamo.
Chi erano questi ragazzini?
Il primo problema che si è presentato è stato proprio l’identificazione di questi ragazzi. Gran parte di loro erano soli, non avevano adulti di riferimento, oppure avevano qualche parente, che però non era presente e non avevano i documenti.
Quando venivano fermati davano false generalità e questo ha comportato e continua a comportare grosse difficoltà anche proprio per un percorso di recupero: per un ragazzino italiano una volta finita la permanenza in carcere si possono attivare dei progetti educativi di inserimento, per i minori stranieri questo è molto più difficile perché non avendo un’identità non si possono appoggiare a un servizio sociale.
Per questo abbiamo deciso di lavorare maggiormente all’interno del carcere perché, una volta uscito, verosimilmente il ragazzino cambierà identità, fornirà altre generalità, si sposterà...
In questa situazione abbiamo proposto una serie di attività di tipo ludico-educativo. Un primo esperimento è stato “Butto la pietra”, pubblicazione trimestrale in italiano e in arabo che raccoglie le storie personali, le esperienze maturate in prigione, i rapporti coi genitori, le tradizioni dei Paesi d’origine, ma anche poesie, racconti, progetti e disegni dei ragazzi del Ferrante. E’ stato un modo per tenerli attaccati al loro vissuto. Perché quando un ragazzino arriva qui senza documenti, è come se fosse senza identità. Entrando in un altro paese non cambia solo il nome, assume anche atteggiamenti diversi, è in fuga, insomma è come se la sua identità si sdoppiasse.
Purtroppo, ripeto, noi questo lavoro di riappropriazione di sé abbiamo dovuto svolgerlo all’interno degli spazi di un istituto carcerario dove l’ostacolo maggiore è l’assenza di un percorso di continuità.
I tassi di insuccesso evidentemente sono frustranti. Però, nonostante tutto, alcuni ragazzi continuano a partecipare alle attività e ce la fanno. L’impegno è grande. Bisogna in qualche modo azzerare la situazione, cioè partire dal punto in cui si trovano adesso per riportarli pian piano ad una vita “normale”, da ragazzini d ...[continua]

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