Com’è nata la decisione di candidarti a sindaco di Napoli?
Marco Rossi Doria. La scelta è maturata in un’altra epoca geologica: Rosa Russo Jervolino se n’era andata e aveva ufficialmente annunciato che non si sarebbe presentata per un secondo mandato a sindaco di Napoli; erano quindi cominciate le manovre per determinare, sulla base di un patto nazionale, chi dovesse diventare il nuovo sindaco. E poiché c’è un verde alla Provincia, cosiddetto, e un presidente diessino, Bassolino, alla Regione, era nei patti che dovesse essere un esponente della Margherita a prendere quel posto. Io, che non sono mai stato iscritto a nessun partito, avevo proposto la mia candidatura a queste primarie, fatto che ha creato scompiglio. A quel punto infatti era già iniziato un fuoco di fila, soprattutto dai Ds, per fare rientrare la Jervolino, che non ho mai capito perché, umanamente, ha accettato. Le motivazioni addotte sono state che se lei se ne andava, la legge prevedeva uno stato di vacanza al Comune di Napoli che avrebbe comportato la presenza di un commissario del prefetto nominato dal governo Berlusconi. Una cosa, sia politicamente, sia simbolicamente e forse anche concretamente, non gradita a nessuno nel centrosinistra. Oltre al fatto che effettivamente era un’onta costringere la città ad affrontare le amministrative con un commissario, per un fatto meramente tecnico. Però da qui a non riuscire a trovare un’altra soluzione…
Comunque, detto fatto, Rosa Russo Jervolino è rientrata e ha deciso di ricandidarsi. Data la nuova situazione io ero un po’ in difficoltà. Voglio premettere che quella mia mossa era stata anche un atto provocatorio, dovuto al fatto che sono anni e anni che noi andiamo in giro “con il cappello in mano”, semplicemente perché vogliamo fare quello che loro stessi dichiarano che noi stiamo facendo. Insomma “non se ne poteva più”. (Così del resto la mia discesa in campo era stata percepita anche da altri settori della città). Però fare questo per le primarie è un conto, ma presentarsi da solo alle elezioni non era pensabile. C’è stato un momento di crisi: “Vabbé, ce ne torniamo a casa, finisce qui, poi vedremo cosa fare”. Poi però mi sono andato a rileggere non solo la legge per l’elezione del sindaco, ma anche tutto il dibattito tenutosi in parlamento negli anni ‘92-93, all’interno del centrosinistra di allora, sul significato di questa legge. E ho visto che là dentro c’era un materiale molto democratico e molto ricco, di cui io mi ero obiettivamente dimenticato, che diceva che il sindaco è il rappresentante della comunità municipale, e quindi se tu sei di un partito e vuoi votare per un’altra persona che ti rappresenta in quanto sindaco di una città, lo puoi fare (il voto disgiunto); che la selezione dei candidati avviene attraverso il doppio turno… Insomma, io mi sono sentito anche tranquillizzato: è un meccanismo più democratico e più significativo delle primarie (obiettivamente vanno a votare molte più persone); con garanzie di legge contro brogli, cose strane, autogestite, che sono un elemento di debolezza delle primarie, diciamocelo; e poi quest’idea del voto disgiunto porta con sé un’idea di città che tutto sommato mi convince. Forse era l’ultimo residuo bellico di una stagione democratica che pare tramontata, tanto è vero che adesso votiamo a liste bloccate senza sapere neanche a chi diamo il voto. Certo, si tratta di una legge voluta, e votata, in parlamento dal centrodestra, ma non mi sembra che il centrosinistra abbia reagito con degli anticorpi, del tipo delle convention sui candidati al Senato o alla Camera, come si fanno negli Stati Uniti. Restava però il dato che io non avevo un partito né apparati associativi di altro tipo (non c’era un caucus di dieci associazioni diffuse nel territorio che mi considerassero il loro rappresentante sindaco). E’ stato in quei giorni che, in un’intervista a Repubblica, ho pronunciato la frase che poi è stata riportata: “Sì, ma non posso fare come quello che si mette lo scolapaste in testa e si crede Napoleone”, nel senso che poi qualcheduno t ...[continua]
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