Quello tra sindacato e lavoratori autonomi è un rapporto recente e complesso. Tutte e tre le organizzazioni hanno messo in piedi delle strutture deputate, ma restano molti problemi, non ultimo quello culturale. Possiamo provare a fare il punto?
Diego Averna. La storia del rapporto tra sindacato e lavori nuovi effettivamente risale agli ultimi dieci anni, nel caso della Cisl dal 1998.
Giustamente però il fatto che oggi in tutte le organizzazioni confederali ci siano strutture deputate al lavoro atipico ed al lavoro autonomo non vuole dire che automaticamente il sindacato confederale, che è un sindacato del lavoro dipendente, comprenda appieno o si faccia carico dei problemi dei lavoratori atipici e autonomi. E’ una situazione in divenire con dei punti nodali particolari. Nello specifico l’area milanese, metropolitana e lombarda in generale, è quella in cui questo rapporto è stato più intenso, perché c’è un’osmosi maggiore. In quest’area la presenza del lavoro atipico ed autonomo è maggiore dal punto di vista numerico, ed anche più significativa dal punto di vista della qualità dei lavori, insomma non parliamo di chi prende la partita Iva per portarti la pizza a casa (ovvero di chi prende la partita Iva perché è preferibile per il datore di lavoro), come è successo per molti anni, qui abbiamo forme di lavoro autonomo nuove, anche con dei contenuti significativi. Dal ‘96, con l’introduzione della gestione separata Inps, sono emerse tutta una serie di situazioni di lavoro autonomo che non hanno più un inquadramento nel vecchio sistema delle professioni regolamentate, avvocati, ingegneri, ma che non per questo hanno meno dignità sul piano professionale. Ecco, è alla luce di questo che come sindacato abbiamo cominciato a lavorare nelle strutture territoriali con le lavoratrici ed i lavoratori, ma anche all’interno del sindacato con le confederazioni, con le altre categorie, per aprire la strada. Affinché il lavoro atipico e autonomo assuma una cittadinanza piena. L’accordo di luglio, per certi versi criticabile, è il primo in cui una serie di problematiche del lavoro atipico in particolare, sono state assunte in un accordo di tipo concertativo. Prima non esisteva niente di tutto questo.
Claudio Negro. Vorrei partire da quello che è, a mio avviso, un problema cruciale che abbiamo noi come sindacato: noi siamo culturalmente (con le debite eccezioni) impreparati ad affrontare la questione del lavoro autonomo. Nella cultura del movimento sindacale italiano (e non solo) c’è ancora un radicamento storico nel taylorismo; nella testa dei quadri del movimento sindacale italiano c’è ancora quel sistema di rappresentazione. Ecco, questo vuol dire tante cose. Recentemente sia la Provincia di Milano che UnionCamere Lombardia hanno pubblicato i risultati di alcune rilevazioni. Bene, il dato per cui in Italia esiste un alto numero di lavoratori autonomi da noi viene ancora considerato un fatto negativo. Come dire: tutto ciò che esula da un rapporto tra capitale e lavoro (per quanto evoluto e civilizzato sia) o è marginalissimo oppure è finto.
Nella nostra cultura il “vero” lavoro autonomo è solo quello degli ordini professionali. Quello che non è negli ordini professionali è lavoro dipendente mascherato, il che in alcuni casi è pure vero, però queste generalizzazioni non ci consentono di cogliere la realtà. Oltretutto questa è una generalizzazione su cui indugiamo volentieri, perché ci consente di rimanere entro lo schema mentale che sottende tutta la nostra attuale azione politica. La concertazione, infatti, funziona nella misura in cui la società è corporatista (non corporativa ma corporatista).
Ecco, i lavoratori autonomi del tipo di quelli di cui stiamo parlando sfuggono ad un ordinamento in classi, gruppi o comunità organizzate, e quindi non si prestano ad una concertazione tra grandi aggregati sociali. Disturbano il nostro schema mentale. Credo che, al di là delle iniziative concrete che pure cominciamo a mettere in campo, dov ...[continua]
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