Gabriele Rabaiotti, ricercatore presso il Politecnico di Milano, insegna "Analisi della città e del territorio” e "Progettazione di Politiche urbane”. Da anni si interessa di politiche della casa e di interventi integrati a scala locale in quartieri difficili. Vive con la famiglia al Villaggio Barona.

Com’è nato il progetto del Villaggio Barona?
E’ nato nel ’95 a partire da quest’area di circa 40.000 metri quadri, di proprietà della fondazione costituita a metà degli anni Cinquanta dal lascito di due persone, Attilio e Teresa. Si tratta di un patrimonio costituito prevalentemente da aree e immobili, distribuito un po’ su tutto il territorio milanese e sull’hinterland, che all’epoca era occupato da piccole attività industriali prevalentemente povere -depositi di ferro vecchio, di olii combustibili, una piccola impresa edilizia, una di bevande gasate, tutte in via di progressiva dismissione e che dagli anni ‘50 pagavano alla Fondazione un affitto molto basso. Con i ricavi di questi canoni di locazione la Fondazione, poi, aveva il mandato di fare attività benefiche.
Nell’80, però, il Comune di Milano approva il nuovo piano regolatore e la destinazione d’uso di quest’area cambia, da industriale diventa destinata a "standard”, ovvero area di pubblico interesse adibita a servizi per la collettività.
Così, quando il deposito di combustibili, l’attività che ne occupava la quota più consistente, nel ’96 decide di trasferirsi altrove, il parroco della parrocchia vicina e il presidente di un’associazione di volontariato del quartiere, particolarmente radicata in questo contesto territoriale, propongono alla Fondazione di utilizzare l’area per finalità sociali e di pubblica utilità.
La Fondazione allora dà loro il mandato di sviluppare una proposta. Questi, a loro volta, interpellano un’equipe di tecnici, formata dal prof. Balducci -allora professore presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione al Politecnico di Milano e ora direttore dello stesso- e da me, che con Balducci collaboravo stabilmente, dall’architetto Saccheri che si è occupato di disegnare e dar forma a tutta questa serie di funzioni attivate, e inizialmente anche da Antonio Tosi, un sociologo che si occupa spesso di processi di trasformazione delle città e della capacità delle comunità di includere "i pezzi più distanti”, le posizioni più marginali e periferiche, quello che di solito viene allontanato e spostato all’esterno.
Nel ’98 il gruppo di lavoro sviluppa una prima bozza. Occorre tra l’altro tenere presente che nell’area, pur inadeguata, man mano che negli anni si erano liberati piccoli spazi, negli interstizi e negli spazi di risulta si erano incuneate attività e associazioni, per lo più di volontariato. Questo per dire che già all’epoca era presente un certo fermento di servizi sociali. Da qui l’idea della Fondazione di coinvolgerle e dar loro spazio, considerandole risorsa e materiale per un progetto vero e vivo, per capire, insieme a loro, cosa fare di quest’area.
Piccolo inciso: noi presentammo il progetto come un programma di riqualificazione urbana, appoggiandoci quindi a uno strumento ministeriale che garantiva la variante automatica al piano regolatore.
Tuttavia la giunta dell’epoca, col sindaco leghista Formentini, non se la sentì di portare la proposta in Consiglio Comunale, perché avrebbe sollevato il grosso problema delle varianti automatiche sulle aree destinate a standard, che avrebbero fatto gola a molti operatori immobiliari, bloccati in quegli anni a Milano proprio a causa di quel vincolo.
Insomma, chiedere di costruire ottanta alloggi su un’area a standard avrebbe sollevato appetiti, curiosità e chissà quali altri interessi, e la giunta Formentini, con Tangentopoli alle spalle che ancora premeva, preferì evitare la discussione.
Noi non ci arrendemmo e nel ’99 ripresentammo il progetto, dopo aver riflettuto e capito qual era l’elemento che sollevava scandalo e avrebbe preoccupato qualsiasi amministrazione. E cioè la vendita degli immobili, che alla Fondazione serviva per liberare risorse per la realizzazione dei servizi: il parco, la struttura per studenti universitari e tutti gli spazi da adibire ai servizi alla persona. Parliamo di 3600 metri quadri. Nel nuovo progetto la prospettiva era completamente diversa: gli immobili realizzati restavano di proprietà della Fondazione che li avrebbe dati in locazione a canoni socialmente accessibili, calmierati rispetto al mercato a famigli ...[continua]

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