Nicola Petrosillo, infettivologo, è direttore dell’Unità Operativa Complessa di Infezioni Sistemiche e dell’Immunodepresso all’Istituto Nazionale Malattie Infettive, L. Spallanzani, di Roma.

In Europa, e in generale nei paesi occidentali, sono in aumento le cosiddette infezioni ospedaliere. Può spiegarci?
Cominciamo col dire che quando parliamo di infezioni ospedaliere o nosocomiali, ci riferiamo a un fenomeno che, come dice il nome, è strettamente legato all’ospedale. Oggi questa è una definizione vecchia. Oggi si parla di "infezioni associate alle procedure e alle organizzazioni sanitarie”. Perché i pazienti non stanno soltanto in ospedale, ma anche in strutture sanitarie assistite, cronicari, geriatrie, sono sottoposti a surgery, dialisi e sono anche loro esposti al rischio di infezioni.
Ora, perché c’è questo rischio? Perché molte delle procedure effettuate su questi pazienti implicano il passaggio di quelle che sono le barriere fisiologiche. Noi abbiamo delle barriere che impediscono ai microrganismi di penetrare: la cute, le prime vie aeree... Ecco, quando si inserisce un catetere vascolare o urinario, quando si mette un tubo endotracheale, si fa un bypass di queste strutture protettive e i microrganismi che possono essere presenti nell’ambiente, sulle superfici, sulle mani degli operatori, possono passare dal di fuori all’interno e possono arrivare in siti normalmente sterili e che non devono contenere microrganismi, come il sangue. Oppure possono penetrare in siti che hanno un basso livello di microrganismi, come la vescica, ma che in caso di inserimento di dispositivi, come appunto il catetere vescicale, possono subire una trasformazione e quindi una crescita smisurata di microrganismi.
Il punto è che questi microrganismi che penetrano all’interno del paziente vivono in una struttura che ha subìto una modificazione dal punto di vista microbiologico. Ecologicamente i microrganismi che stanno nelle strutture sanitarie sono diversi perché hanno subìto la pressione selettiva da parte delle terapie antibiotiche effettuate. Quindi, in ospedale, e soprattutto nei reparti critici, dove si fa largo uso di antibiotici, ci sono dei microrganismi resistenti.
Ma non finisce qui. Perché le resistenze possono trasferirsi da un microrganismo all’altro: attraverso degli elementi mobili, i plasmidi, possono trasferire i geni, cioè quelle strutture che codificano gli enzimi della resistenza, da una specie all’altra, da un batterio all’altro, dal Coli alla Klebsiella, dallo Pseudomonas all’Helicobacter e così via.
Dall’altra parte non dobbiamo dimenticare che parliamo di un ospite che ha delle difese immunitarie debilitate: un paziente che ha delle comorbilità, delle patologie sottostanti, che fa terapie immunodepressive, oppure un paziente critico che sta in terapia intensiva.
Nel quadro generale, il nostro paese, come tutti i paesi industrializzati, registra un tasso di infezione variabile intorno al 7-8%, come prevalenza, nel senso che se si va a fare un’indagine trasversale si vede che in un giorno in un ospedale mediamente su 100 pazienti ricoverati ce ne sono otto che hanno un’infezione acquisita in ospedale.
Queste infezioni, per la maggior parte dei casi, interessano prevalentemente le basse vie respiratorie, seguono le infezioni urinarie, le infezioni del sito chirurgico, quindi della ferita; altre infezioni sono quelle del torrente circolatorio legato ai cateteri vascolari e altre minori, come quelle alla cute: le lesioni da pressione, i famosi decubiti, possono infettarsi e creare delle infezioni.
Ribadisco che siamo in un contesto nel quale abbiamo un paziente fragile, dei microrganismi che colonizzano e delle procedure.
La domanda è allora: quanto possiamo incidere per ridurre questo rischio a cui ovviamente non vorremmo che il paziente fosse sottoposto? Qui parliamo di qualità dell’assistenza. Le infezioni ospedaliere sono un indicatore di qualità dell’assistenza. Dico subito che queste infezioni non sono azzerabili. C’è uno zoccolo duro che non è alterabile. Ci sono vari studi che dicono che se ne possono prevenire il 30-40% fino al 50%, forse di più. Chiaramente dipende dal tipo di infezioni.
Le infezioni da catetere urinario sono facilmente prevenibili se uno adotta delle misure di igiene e antisepsi; se uno mette il catetere quando è necessario, e non a tutti i pazienti, e se lo toglie quando è necessario. Poi c’è il discorso delle terapie antibiotiche fatte in maniera i ...[continua]

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