Harald Bodenschatz, docente all’Università tecnica di Berlino, ha scritto un’opera sull’architettura e sull’urbanistica del ventennio fascista "Stadtebau fur Mussolini”. Max Welch Guerra, facoltà di Architettura dell’Università di Weimar.

La produzione architettonica e urbanistica nelle dittature novecentesche è il vostro interesse di ricerca come studiosi. Introducendo l’argomento, potete spiegare come lavorate?
Max. Per capire l’urbanistica delle dittature non è sufficiente osservare i prodotti finali, che pure sono importantissimi, è necessario studiare anche il processo di produzione, le condizioni che ne hanno permesso la realizzazione o i piani. Per capire un palazzo mussoliniano, come prodotto di quell’epoca, dobbiamo vedere le condizioni di produzione, che sono culturali, artistiche, ma anche economiche, istituzionali, se imponevano, ad esempio, di avvantaggiare il campo della salute o la scuola, l’università o l’aeronautica o il verde... Ci sono anche delle decisioni politiche che devono essere considerate. Dire: "Questo è stato fatto perché Hitler era un architetto frustrato”, oppure perché "Hitler aveva un’inclinazione per le città”, o che era stata tutta una decisione di quel pazzo di Hitler che ci aveva incantato o di Mussolini che ci aveva sedotto, non è una spiegazione storiografica.
La Germania nazista (come l’Italia di Mussolini o l’Unione Sovietica o la Spagna di Franco) non era una dittatura così semplice per cui bastava che Hitler dicesse qualcosa: i differenti protagonisti, soprattutto le differenti istituzioni, litigavano per le risorse. C’erano interessi molto materiali: essere incaricato della ricostruzione, della germanizzazione della Polonia significava accedere a risorse ingentissime e non era lo stesso se a essere responsabili erano le SS o il sindacato nazista o il ministero del lavoro. Dietro queste decisioni c’è sempre un tessuto di interessi, di contraddizioni, di conflitti, che si può ricomporre, attraverso le riviste di urbanistica, la corrispondenza, i documenti.
Gli storici dell’arte tendono a studiare l’oggetto singolo e ad analizzarlo in modo molto approfondito, ma nelle dittature la singola architettura dipendeva anche da un’idea urbanistica, da una decisione politica. Solo avendo in mente tutto questo possiamo capire in che modo l’urbanistica è stata uno strumento delle dittature e possiamo anche capire meglio le dittature. Per esempio studiando le differenze, perché alcune si sono concentrate sulla capitale o invece sulla campagna. Sono differenze importanti, ma per valutarle è necessario capire innanzitutto il processo di decisione e poi le trasformazioni delle dittature nel tempo, perché tutte attraversano diverse fasi. Insomma, non basta concentrarsi solo sull’architetto o su Mussolini o Hitler... è troppo poco.
Harald. Non va dimenticato che c’era concorrenza nella professione stessa: ciascuno voleva interpretare una sua visione dell’uomo nuovo e della città fascista quindi i progetti in campo erano molto diversi. È molto interessante, per esempio, la situazione del 1929, in cui vengono raccolte tante proposte diverse su come abbellire il centro di Roma. A quel punto il governo decide di creare un gruppo per preparare il piano regolatore, in cui tutti i concorrenti vengono inclusi; una soluzione differente da quelle adottate nell’Unione Sovietica. Le diverse istituzioni politiche italiane, partito, ministero delle comunicazioni e così via, avevano a loro volta una diversa ottica, per esempio, sullo stile architettonico; uno spettro di stili diversi che non abbiamo in Germania e nemmeno in Unione Sovietica in quella fase. Da noi, spesso, questo dato è stato interpretato come una debolezza del regime italiano. Si potrebbe dire anche il contrario. Dato che tutti gli architetti avevano il senso di poter partecipare, in Italia non ci fu un’emigrazione dettata soltanto dal gusto architettonico come accadde in Germania per Gropius e Mies van der Rohe. In Germania abbiamo avuto un architetto di stato, Albert Speer, per il quale fu creata un’istituzione statale dipendente soltanto da Hitler, dotata di risorse, competenze e che poteva decidere verticalmente, dall’alto. In Italia, dove pure c’era Marcello Piacentini, personalità emblematica del professionismo del ventennio, non si può parlare di un "architetto di stato”: cancelleremmo una differenza importante e soltanto vedendo le differenze si può capire qual è la sostanza di una dittatura e perché si è ...[continua]

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